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Festival Orizzonti di Chiusi, un vortice creativo di cultura

Festival Orizzonti di Chiusi, un vortice creativo di cultura

Reportage della giornata di domenica 3 agosto

Si parla sempre più spesso, nelle conferenze e negli interventi degli assessori alla cultura dei comuni chianini del “mostro contemporaneo”, della difficoltà di innestare elevazione e interesse verso la modernità delle arti, nella collettività. Ne parlava, con somma disillusione, Massimo Vedovelli, ex-assessore alla cultura del comune di Siena. Ne parlano in continuazione i militanti del comitato Siena2019, sulla difficoltà – ma anche sullo sforzo necessario – di porre percorsi conoscitivi di arte contemporanea (nell’etimo più ampio del termine) in città che sono “gioielli del medioevo e del rinascimento”. Se ne è parlato in seno al botta e risposta polemico, legato a ICASTICA, nella città di Arezzo, che non poche difficoltà ha avuto nell’affermazione dei propri intenti. Ecco; in questi giorni è possibile riconoscere una risposta incisiva, assolutamente solutiva, alla problematica del suddetto “mostro” a Chiusi. Valdichiana. Provincia di Siena. Novemila anime.

La Fondazione Orizzonti d’Arte di Chiusi apporta un servizio di divulgazione, scolarizzazione ed educazione agli ascolti e alle visioni del contemporaneo, degno della più alta lode. La tagline dell’evento è “festival delle nuove creazioni nelle arti performative”. Dieci giorni densi di spettacoli che si allacciano alle scene più disparate dell’espressione creativa del tempo presente. Un programma da cui emergono i nomi di alcune tra le più importanti realtà del teatro italiano; da Chiara Guidi e la socìetas Raffaello Sanzio alla bolognese Fortebraccio, da Ascanio Celestini alla compagnia di Virgilio Sieni, da Paolo Panaro fino agli autori e attori locali. La fossa fuia dell’atarssia non è che una scusa per l’immobilismo autoimposto; agli spettacoli il pubblico risponde con presenza salda e convinta partecipazione, anche di fronte alle rappresentazioni più ostiche, poco immediate ed oscure.

orizzontiHo passato la giornata di domenica 3 agosto al festival, cercando di immergermi nel vortice creativo entro il quale mi trovavo. Ho assistito nel pomeriggio ad uno spettacolo per ragazzi della Cà – luogo d’arte, compagnia di Gattatico (Reggio Emila). Un tradizionale teatro di burattini, con annessa baracca a due quadri scenici, arricchita da lodevoli trovate meccaniche, che con mio moderato sbigottimento ha tenuto accesa e nitida l’attenzione di una platea di bambini, tutti nati – credo – nella seconda metà degli anni zero. In un mondo dove i tempi dell’attenzione si sono irrimediabilmente ridotti, l’immagine di quei bambini incollati alla vicenda de “il gatto con gli stivali o della povertà che si riscatta”, è stato, se non altro, intenerente.

L’educazione al teatro, l’educazione all’interesse per il bello e per l’apprezzamento e la valorizzazione della creatività, per tutte le utenze e i target anagrafici, è la cifra più riconoscibile tra le forme mobili che gravitano intorno al centro storico di Chiusi, in questi giorni. È ciò su cui ha insistito Andrea Cigni, direttore artistico del festival, che sottolinea la presenza dei laboratori quotidiani, messi a disposizione per la cittadinanza, tenuti da importanti personalità del teatro italiano; la compagnia Sieni sul ‘gesto performativo’, Chiara Guidi sulla voce e Francesco Niccolini sulla scrittura teatrale.

«Fare laboratori aperti ai ragazzi è estremamente importante» ribadisce con quieto vanto Andrea Cigni «C’è bisogno di fare approfondimento su questo tipo di mondo. È necessario un lavoro che vada oltre lo spettacolo di per sé, un lavoro da fare insieme a chi già pratica questo mestiere. Per poter vedere, capire e criticare – anche in senso buono – gli spettacoli bisogna conoscere bene le modalità con cui questi vengono prodotti, così da avere tutti gli elementi per poterli giudicare in modo quanto più possibile serio, sereno e con la minima parzialità».

Ho avuto il piacere di incontrare Francesco Niccolini, tra i più apprezzati autori di teatro di prosa italiani, che tiene corsi di approfondimento sulla scrittura scenica, dedicati al dialogo, nelle sue più ampie declinazioni.

«Questo è un mestiere artigianale, come lavorare il legno» mi dice «Per cui è sì bello vedere i prodotti finiti, ma è altresì interessante osservare il lavoro sui materiali, partendo dal legno grezzo. È forse la cosa più bella. Si perde altrimenti una delle fasi fondamentali del lavoro. E si viene a creare quel ponte tra lo spettatore e l’informazione, necessario per la salute del teatro». Di fatto quella percezione dei prodotti finiti, primariamente intesi come prodotti in fieri, è il fondamento dell’educazione alla lettura dello spettacolo teatrale, specie quando, in piccoli paesi, la ricercatezza degli elementi cozza con le inclinazioni viscerali del territorio, e si fortifica così quel muro di gesso esclusivo, snobistico, innalzato con sicumera dalle istituzioni culturali organizzatrici. «Se il servizio di divulgazione è fatto serenamente è estremamente utile» continua Niccolini «C’è sempre il rischio che ci sia un ponte levatoio ed un fossato con i coccodrilli tra i festival locali e i territori che li ospitano (e non è una questione di provincia. Le città sono addirittura più distratte. Magari nei paesini ci può essere una particolare affezione verso la realtà che si propina, la grande città invece se ne frega). Ecco; i laboratori e gli incontri cercano di abbatterlo, questo muro».

Ho assistito ad una meravigliosa performance della compagnia Sieni intitolata “Esercizi di Primavera”, un capolavoro minimale di gestualità e plasticità dei corpi. Uno spettacolo che è stato nutrimento, epifania, luce totalizzante ed essenziale. Sei ballerini accompagnati dal violoncello e dalla voce (o meglio dalle voci) di Naomi Berrill; una fata evanescente a metà tra una Bjork metafona e Fever Ray in una bolla di idrogeno, priva di comunicazione lessicografica ma comunque tumida di espressività, posta sul fondale della rappresentazione, le cui fraseologie musicali e la cui forza definitiva sovrastavano, senza coprire, i meravigliosi quadri che si susseguivano sulla scena; un gruppo di esuli danzanti, una comunità che scende inesorabile verso la sua estinzione. I rimandi delle performance sono stati plurimi e di notevole caratura; la ricerca di individualità attraverso la transindividualità, che sonda gli elementi del disastro conclusivo, della fine tirannica, e li sfrutta come particelle mobili di un ciclo continuo come quello delle stagioni, cui la “primavera” del titolo richiama. La bella stagione non è che un climax periodico, lo zenit di un tornante continuo, che necessita dell’estinzione per una rigenerazione e ri-urbanizzazione delle collettività perdute. È la denotazione delle soggettività che si attraversano e si riconoscono, in costante ricerca della declinazione plurale del sé; i sei ballerini deformano la leadership del “branco”, i ‘principi’ si susseguono e piano piano perdono le abitudini della subalternità, per concludere nell’agnizione totale dell’Altro. Un’orbita declamante fratellanza silenziosa, nella perdita.

All’uscita del teatro Mascagni, ancora allucinato dal trip entro il quale i ballerini della Sieni mi avevano accompagnato, raggiungo di corsa piazza Duomo, dove l’allestimento già visibile dal pomeriggio dello spettacolo “Grimm’s Anatomy” era stato circondato dagli avventori. Il palco principale, quello usato per l’opera “Pierrot Lunaire/Gianni Schicchi” in programma la sera precedente e poi riproposto in replica quella successiva, è rimasto buio; sopra di esso ci sono solo puntatori rivolti verso il centro della piazza, dove è collocato un particolare arredo scenico; un trittico irregolare di piani, ognuno con una dominanza cromatica diversa. Quello più alto, alla base della torre del Duomo, è riempito di ombrelli bianchi.

“Abbiamo deciso di non lavorare sul palco centrale, come inizialmente ci è stato proposto”-  chiarifica Laura Fatini, una dei tre registi – “sarebbe diventata una cosa troppo grande. Ci piaceva articolare la scenografia su tre sezioni separate, visto che di base abbiamo preparato tre testi diversi”.

Un trittico di monologhi che vanno a condurre una polifonia ritmica e tonale, “Grimm’s Anatomy” è uno spettacolo concepito come operazione chirurgica delle fiabe dei fratelli Grimm, traslate nella modernità;

« Il nostro compito fin dall’inizio su decisione del direttore artistico era di prendere tre fiabe e trasporle nella modernità» mi racconta Carlo Pasquini «Abbiamo individuato tre fiabe dei Grimm e abbiamo incominciato a lavorare ognuno sulla propria. Io ho lavorato su Biancaneve e ho incentrato la ricerca sulla Regina cattiva di Biancaneve».

image(1)Il concept basico è meraviglioso, al centro di un festival dedicato al mito e alle atmosfere fiabesche, i tre registi di riferimento del territorio chianino hanno avuto la possibilità di lavorare sull’anatomia di tre fiabe, scegliendo attori locali. Ad aprire lo spettacolo le note di un rifacimento di “Estate” di Chet Baker, che già apre le porte dell’immaginario scolpito dalle iconografie della Dolce Vita, de la Grande Bellezza, quell’ormai cristallizzato contesto della sfioritura decadente, dei toni scuri e lucidi del fascino che scade inesorabile, negli ambienti dell’alta borghesia. La nostra regina cattiva di Biancaneve è immersa in questa dimensione. Chiara Savoi impersona, in sottoveste nera, una regina aggrappata al senso contrario del tempo che scorre, una signora matura continuamente definita attraverso i ricordi, immersa in una profonda e menzognera solitudine. Ai flashback ostentati si associa il suo rapporto con lo specchio parlante a cui cerca di imporre un’immagine falsa, costruita, scaduta di sé.

Il testo che Carlo Pasquini ha scritto a quattro mani con Daniela Comandini ci mostra il fondo speculare della menzogna ostentata, la brutalità dei rapporti costruiti sul nulla celato dall’apparire. In un’iconografia riconoscibile, le immagini ben configurate dal testo, seguono un percorso sempre più commiserabile, intervallato da appelli allo specchio che, ormai stanco delle continue vessazioni subite, si rifiuta di riflettere il volto di questa regina ormai deturpata dalla vacuità del suo essere.

Laura Fatini invece ci presenta una Cenerentola inamidata che segue una continua ma lenta metamorfosi. Ad incarnarla c’è Pierangelo Margheriti; alto nel sue metro e ottanta, con una fisicità dirompente la cui aggressività è completamente coperta dall’efficace lavoro di costumi e di posizione. «ho intitolato il testo “Emily”. In realtà è la storia di Giovanni che si trasforma in Emily». La tirata fonologica torna più volte sulle scarpe, celata ossessione di questo crossdresser, la cui umanità patetica pervade completamente il versante tragico della rappresentazione. Il legame con Cenerentola è sancito dalle scarpe da cui scaturisce la metamorfosi totale dell’io declamante.

«Il testo è completamente mio» continua Laura Fatini «Ci hanno chiesto di lavorare con attori del territorio, il testo è molto complesso perché si lavora con diversi registri di voce, su diverse tipologie di movimenti; da uomo e da donna. Abbiamo lavorato sulla voce, sui movimenti e sulla psicologia perché s parla di trasformazione continuativa. Non c’è mai un momento in cui la personalità si ferma».

Il trittico è chiuso dal testo di Gabriele Valentini, da lui stesso diretto, e interpretato da Giacomo Testa, con toni più coloristici e gradi ritmici più variabili e discontinui, ma decisamente più coinvolgenti e coerenti nella loro policromia. Giacomo Testa interpreta il principe de La Bella Addormentata; un principe decisamente impacciato, exemplum più o meno condivisibile del maschio contemporaneo; goffo e instabile, reso insicuro dai modelli perfetti e inarrivabili della televisione. L’operazione di Gabriele Valentini ha più livelli ermeneutici, rispetto ai due blocchi che lo precedono, della fiaba dei Grimm; la traslazione al contemporaneo del principe vive nei riferimenti alla contemporaneità, ma non si snoda dai dati-chiave con la fiaba originaria. Il personaggio segue una “fenomenologia del principe della bella addormentata”; percorre una tesi poi un’antitesi e infine giunge all’autocoscienza sintetica delle sue personalità. È l’elemento umano neutro che si fa principe, che viene concepito dai fratelli Grimm e che insegue il suo bildungsroman verso il ‘diventare ciò che si è’.

«Il principe trova la chiave di lettura dell’amore e tramite questo riesce ad arrivare alla stanzetta della torre dove c’è la principessa. Si rende conto che la sostanza di cui è fatto il coraggio è la paura stessa» mi dice Giacomo Testa poco prima di entrare in scena.

image(2)Ed è forse quel principe goffo e inceppato, che fa fatica a collocarsi in una fiaba di cui egli stesso è protagonista, è forse l’emblema, l’incarnazione del teatro contemporaneo; una ricerca di sé instancabile e recalcitrante, che si butta in pasto ai sensi delle platee variabili e molto spesso impreparate, uditori disinteressati, o peggio snob ed altezzosi, un teatro che arranca nel sovrappeso delle sue miserie, ma che ama il suo pubblico e lo rincorre e cerca di svegliarlo dal sonno atarassico nel quale è caduto. Un principe in attesa di un amore e un amore in attesa di coraggio.

Ecco, il motivo per cui ha comunque senso fare teatro nelle piazze, mentre intorno rombano i motorini, il vocio dei branchi fuori dai bar disturba l’attenzione, lontano i brusii, i pianti dei bambini e le urla delle madri, gli anziani che si alzano dalle prime file e passeggiano davanti al palco ombreggiando i piani scenici senza il minimo rispetto, il motivo per cui ha comunque senso portare arte in qualunque strada, a contatto con qualsiasi tipo di umanità, è quel coraggio che va perseguito costantemente, sebbene si ripercuota in tutti i singoli moti di contraddizione, i quali in fondo non sono altro che energie da dirottare.

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