Nell’articolo di presentazione a questa rubrica ho parlato delle trasformazioni culturali a cui sono soggette le società umane nel momento in cui tradizione e modernità si incontrano.
Questo problema ne mette in questione un altro, quello dello spazio antropologico.
Si tratta dei luoghi immaginari nei quali gli individui collocano i rispettivi orizzonti di significato. In altre parole, i loro sistemi di riferimento.
Secondo Akhil Gupta la nostra concezione di spazio è fortemente segmentarizzata, tendiamo cioè a concepire le popolazioni chiuse all’interno di confini culturali ben definiti. Una concezione difficile da accettare in un’epoca come la nostra, nella quale la globalizzazione e la modernizzazione pongono le società in una condizione di continuo contatto reciproco.
Il concetto stesso di nazione è storicamente definito. Secondo Ernest Gellner le nazioni sono addirittura funzionali al capitalismo industriale.
La concezione che abbiamo dello spazio si spinge insomma verso il radicamento dell’identità in un dato territorio geografico e culturale. È un bisogno spirituale e morale, più che naturale, come viene invece comunemente considerato.
Nei processi moderni caratterizzati da grandi spostamenti umani per le cause più varie si riscontra un fenomeno di deterritorializzazione di identità, connessa per larga parte alla globalizzazione. Per un approfondimento sul tema della deterritorializzazione rimando all’ articolo Oltre la cultura: spazio, identità e politiche della differenza di Akhil Gupta e James Ferguson, e a Geografia nazionale: il radicamento dei popoli e la territorializzazione dell’identità nazionale fra gli studiosi e i profughi, di Liisa H. Malkki, entrambi raccolti nella rivista Cultural Anthropology, vol. 7, n. 1.
Il mondo moderno vive una condizione generale di assenza di fissa dimora, come ha detto lo scrittore Edward Said, un mondo in cui le linee di confine che attribuiamo alle popolazioni sfumano tra loro, diventano meno nitide; culture e popoli cessano di essere facilmente identificabili. Questo porta conseguenze nel modo in cui l’individuo moderno si rapporta con il cambiamento sociale, e soprattutto con coloro che ne sono la rappresentazione vivente: i migranti.
Se da una parte lo spazio è il modo in cui si costruisce culturalmente una popolazione, dall’altro esso è uno spazio immaginato. Per i migranti il territorio diventa il luogo in cui immaginare una nuova identità. Spesso sono i luoghi ricordati, le memorie passate, a costruire loro un nuovo modo di vivere.
Gli Stati moderni politicizzano questi spazi immaginari e li usano per tenere i migranti relegati in uno spazio altro, mantenuto e inventato come totalmente opposto a quello del senso comune.
Inoltre, le concezioni che possediamo sull’attaccamento al nostro territorio ci portano a definire il fenomeno della migrazione non come un processo politico e sociale, bensì in quanto condizione patologica del migrante. I rifugiati, per esempio, vengono considerati attraverso l’analisi della loro salute psicologica, più che vittime di processi storici e culturali ben definiti. Non che l’essere rifugiato non comporti ferite psichiche profonde, ma queste tematiche dovrebbero essere affrontate attraverso un approccio più completo, ossia guardando al processo storico che ha generato la condizione di liminalità dell’individuo.
Affronterò nel dettaglio questo tema in uno dei prossimi articoli, nel quale parlerò di rifugiati vittime di tortura e di violenza strutturale.