C’è un celebre frammento di Goethe, ormai scolpito negli annali dell’ipersoggettivismo lirico da citazione a margine delle agende Smemo, tratto dal colosso bibliografico che racchiude tutta la serie del Wilhelm Meister, che fa più o meno così: “tutto ciò che di intelligente c’era da pensare è già stato pensato, bisogna solo ripensarlo di nuovo”. Ecco, è questo, in sostanza, il modo migliore per confrontarsi con il passato, con la genialità che ha contraddistinto il processo evolutivo delle nostre conoscenze, dei nostri ingegni, specie in contesti in cui si dovrebbe plasmare la coscienza – e i saperi – delle generazioni più giovani. La massima racchiude in sé il senso intrinseco che da iniziative come la settimana di Foucault – che la costellazione organizzativa dei Licei Poliziani, con ammirevole solerzia, sta portando avanti – dovremmo acquisire e sedimentare.
La sera del quindici aprile è andato in scena al Teatro Poliziano quello che, da programma, si configurava come il divertissement teatrale ‘umanistico ’nella complessa e composita serie di incontri scientifico-istituzionali; “La Vera Storia del Pendolo di Foucault”. Una mise en scène graziosissima, che si rivela centrale nell’economia delle celebrazioni poliziane del fisico francese, almeno per quanto riguarda i suoi intenti educativi, primariamente che espositivi. Il coinvolgimento di venti ragazzi dei licei di Montepulciano e la diretta immersione nelle tematiche del festival, attraverso la mnesica dell’esercizio teatrale, realizzano la premessa costruttiva di un’iniziativa che parte da un istituto scolastico, coinvolge corpo docente e studenti – nonché realtà collaterali, come il gruppo Arteatro e l’istituto musicale Henze – ed apre le porte ad un pubblico esterno, al fine di amalgamare l’istruzione alla socialità, il sapere alla collettività. Per troppo tempo, forse, l’errore della scolarizzazione italiana è stato quello di industrializzare i propri centri produttivi, le proprie strutture, a scapito della consapevolezza intellettuale delle generazioni. La riuscita della “Settimana di Foucault” si inquadra soprattutto in questi termini: il “servizio pubblico” di un istituto scolastico si rapporta finalmente con il contesto sociale nel quale è stato edificato, dimostra la sua presenza attraverso iniziative, spettacoli, manifestazioni pubbliche che cooptano, coinvolgono, protraggono gli insegnamenti e l’educazione alla conoscenza anche al di fuori delle mura scolastiche, sdoganando limiti di target e di qualsivoglia gerarchia cronologica.
Sul palco del Poliziano abbiamo osservato Jean Bernard Léon Foucault giungere in una locanda parigina in una notte d’inverno del 1851. Abbiamo visto il fisico interagire con altri avventori della locanda, tra cui Charles Darwin, Jules Verne, Giuseppe Verdi, Dumas figlio, Gioacchino Rossini, Ciro Pinsuti e Victor Hugo che proprio all’interno della locanda vede conformarsi le personalità chiave de Les Misérables, a partire da Fantine, Petite, Manon, nonché Jean Valijean, Cosette ed altri protagonisti del monumentale romanzo storico hugiano.
Lo spettacolo muove da un testo del prof. Raffaele Giannetti, insegnante di latino, che dispone sul piano scenico una deliziosa satura lanx postmoderna, oscillante – come un pendolo – tra registri e codici diversi, ricchissima di riferimenti e citazioni, retta da una livellatura plurale di artifici. La formula drammaturgica di fictio della pièce ha avuto un effetto decisamente efficace nel pubblico, complice certamente il terreno favorevole di conoscenti e collaboratori al progetto della settimana di Foucault, ma non solo: la buona riuscita della commedia si è contraddistinta per una forte fiducia implicita, da parte degli spettatori; è improbabile che questi personaggi reali si siano ritrovati nella stessa locanda in una sera del 1851, ma l’inverosimiglianza ha reso l’aura espressiva della scena convincente. Gli eccessi e le scelleratezze storiche, invece che rompere l’ordito drammaturgico del testo, si sono legati tra loro, come un fraseggio musicale, attraverso la perizia compositiva del regista Franco Romani.
Una bella rappresentazione, insomma, che rende grazie ai fondamenti teleologici della settimana foucaultiana a Montepulciano. Gli attori, seppur sbarbati, denotano una crescente inclinazione al palco scenico, in declinazioni diverse: c’è la cosciente e consapevole goffaggine comica del teatro popolare in Alessandro Bacconi, che interpreta lo stesso Foucault – strepitosi gli accenti dati alla sbornia – la soave spigliatezza di Veronica Gonzi nei panni di Petite, o la soluzione ritmica, nei tempi ora comici ora drammatici, di Francesco Pipparelli, che interpreta Alexandre Dumas figlio. Perfetta la vocalità narrativa di Massimo Giulio Benicchi, narratore in scena, che ha accennato ad uno squisito dariofoismo nel dialogo ad una voce sola con Giovan Battista Guglielmini.
Lo spettacolo ha raccolto in platea e nei palchetti un – ci auguriamo – ripetibile sold out, ed ha ribadito la necessità dell’apprendimento continuo, l’innegabile necessità di stimoli all’approfondimento e alla ricerca, ognuno nel suo piccolo, ognuno nella sua ragione.