Polvere di Cipria – Seconda Parte
Questa volta, voglio spostarmi verso le arti visive: ammetto che in fatto di pittori, sono sempre stata molto selettiva – e probabilmente non ne so abbastanza – ma ciò che ha rinfocolato il mio amore per questa forma d’arte è stata senz’altro una figura riscoperta e riconosciuta a posteriori, come sempre. Il caso – o l’istinto? – vuole che sia proprio una donna, ovvero Artemisia Gentileschi. In questo articolo spero di darvi delle mie impressioni su questa figura, il coraggio che ha avuto, non tanto farvi una lezione d’arte, con elenchi di opere sterminate, perché altrimenti rischierei di annoiarvi tutti. E poi, non ho voglia di dare lezioni a nessuno, quanto proporre ciò che mi affascina e lasciare la scelta a ciascuno dei lettori di approfondire l’argomento.
Artemisia Lomi Gentileschi (1593 – 1653)
Artemisia è stata una donna coraggiosissima, lo capisco sin da subito. Si va oltre le parole, oltre le descrizioni e le didascalie: gli occhi capiscono tutto al volo, guardando le sue opere, passando dall’una all’altra voracemente e con meraviglia. Nel suo “Autoritratto come Allegoria della Pittura” mi colpisce lo sfondo e l’ambiente bruno, in contrasto con la sua pelle chiara, sferzate di luce nel buio, tra i vestiti scuri. La sua figura emerge, fa a pugni con l’oscurità, i tratti sono netti, qualche ciocca di capelli neri è in disordine. Ma la sua espressione concentratissima, mi colpisce enormemente. È una donna determinata, focalizzata sul proprio lavoro e la propria passione, che ha dovuto coltivare in maniera diretta la propria passione, diventando allieva di suo padre, Orazio Gentileschi – non avendo modo di poter frequentare le scuole di formazione, nelle quali le donne non erano ammesse. Poteva anche osservare e vivere la vivacità dell’arte nel quartiere di Roma dove viveva, e peraltro, la città godeva del talento di un pittore come Caravaggio, che influenzò moltissimo la giovane artista. Comunque, le donne non potevano avere un lavoro – perlomeno ufficialmente – e non avevano un ruolo sociale riconosciuto, quindi l’unica soluzione era trovare qualcuno che le accettasse come apprendiste. E questo padre amorevole, si prodiga per aiutare la talentuosa figlia e lanciare la sua arte, cercando i favori di qualche nobile.
Eppure, c’è qualcosa che non va. C’è qualcosa di morboso dietro, non per colpa della povera Artemisia. Ma quando le donne cercano di essere tenute nell’oscurità, è proprio in essa che si consumano le nefandezze dell’animo umano, perché si pensa che siano sempre nascoste. C’è qualcosa in quel padre-maestro un po’ ossessivo, che la introduce ad Agostino Tassi, per farle studiare prospettiva. E così, un dramma – ben documentato – si consuma: uno stupro, senza matrimonio riparatore e con una pena tutto sommato lieve nei confronti dello stupratore. Il pittore era già sposato e alquanto morboso nelle sue relazioni extraconiugali, ma chi ci rimette è proprio Artemisia, che viene interrogata e torturata e le testimonianze sono ancora disponibili, in tutta la loro crudeltà.
Allora, una donna piena di vergogna, ai tempi poteva anche combinare un matrimonio per ovviare al problema (cosa che venne fatta con Pierantonio Stiattesi), ma cosa le rimaneva, se non esprimere quello che sentiva tramite la pittura? “Giuditta che decapita Oloferne” è crudo, sanguigno, può una donna aver dipinto tale efferatezza? Eppure, vedo il quadro e capisco il suo bisogno di portare alla luce la sua tragedia personale: prende i tratti drammatici di Caravaggio e li riempie di vendetta personale. Se una donna non può nemmeno ottenere giustizia per un gesto che l’ha danneggiata (facendole peraltro perdere il favore e il moderato successo che stava ottenendo a Roma), figurarsi uccidere il proprio aggressore e farsi giustizia da sé. Allora, usa quello che sa usare meglio: i colori, il disegno, le mani e la propria creatività. A mio avviso, è un urlo disperato, un tentativo di far capire cosa si prova di fronte al proprio aggressore che tutto sommato, può starsene tranquillo e vivere serenamente. Ora come ora, ci vedo qualcosa di tremendamente attuale e moderno, se vi ricordate le ultime notizie di cronaca. Donne, donne malvessate, maltrattate e tutto sommato senza giustizia, oggi come ieri, che hanno le proprie abilità come unico mezzo per fermare nello spazio e nel tempo certi eventi indelebili.
Tuttavia, però, Artemisia si fa coraggio, abbandona Roma e con il marito cerca di ricostruirsi la propria fortuna a Firenze, dalla quale scappa poco dopo, lasciando pure il marito e i debiti alle spalle, tornando a Roma, da donna matura e in grado di prendere in mano le redini della propria vita senza il bisogno di nessun marito che compensi la sua vergogna e la renda dignitosa agli occhi di tutti, ed è un’artista attenta e libera di assorbire i continui cambiamenti e trasformazioni della pittura. La buona, ma non enorme, fama la porta anche a Venezia e Londra – dove si ricongiunge per un breve periodo al padre, col quale aveva tagliato i ponti dopo lo stupro – e infine a Napoli, dove si spegne nel 1653. Tre secoli dopo, viene riscoperta, presa come modello da artiste del Novecento, apprezzatissima a Milano nel 2011 e nel 2012, in una delle svariate mostre a lei dedicate. Esiste anche qualche romanzo su di lei, soprattutto di recente scrittura, come si conviene a una piacevole riscoperta, ma anche un esempio di donna volitiva, fiera e indipendente, come tutte le donne che ha sempre dipinto.
Perché Artemisia ha lasciato tracce di sé indelebili nei suoi dipinti, perché più che per un uomo, per la donna era quello l’unico modo per affermare che sì, anche lei era esistita, e che esistenza fatta di luci e ombre, in quel mondo smaccatamente maschile.