Giovedì 14 Marzo, al Teatro Poliziano, Federico Buffa presenta la sua avventura teatrale: “Il rigore che non c’era”. Ambientato in un luogo non collocato nel tempo e nello spazio, lo spettacolo ritrae personaggi condannati a raccontarsi. Si avvia così un itinerario narrativo accompagnato dagli interventi musicali del pianista Alessandro Nidi che sottolineano e impreziosiscono i racconti. Sullo sfondo della scena, si scorgono un palazzo e due finestre, tra le quali compare una sorta di angelo custode, interpretato da Jvonne Giò; sul palco, insieme a Federico Buffa, c’è anche un altro attore, Marco Caronna.
Nella sacralità dello sport, la cronaca diviene liturgia e i cronisti (i tele-cronisti, i narratori e i giornalisti sportivi) assurgono a sacerdoti laici dell’agonismo. In questo, il presbitero della poetica sportiva italiana è Federico Buffa. Egli è la cronaca che diventa storytelling e contestualmente lo storytelling che scivola nella cronaca: è il neorealismo della diretta a telecamere accese che passa alla differita del realismo il quale, con austerità e cognizione storica, riporta i fatti facendo a meno delle immagini, esplicitando tutti i collegamenti che dagli eventi esposti scaturiscono. Federico Buffa riempie le fasi agoniche del gioco di valori umanistici, collettivi, e trasforma il racconto in puro fraseggio epico contemporaneo. Dall’essere voce italiana storica delle telecronache di NBA insieme a Flavio Tranquillo, è passato ad essere il guru dei format narrativi in TV, alimentando il grande peso sociale che l’aspetto sportivo detiene e che in Italia è stato storicamente parodizzato, marginalizzato, instupidito. Tutta la sua esperienza giornalistica trentennale ha sedimentato, fermentato, e viene espressa massimamente in questa sua prima fatica teatrale, la quale lo sta vedendo calcare il palchi di tutta Italia.
Il rigore che non c’era è uno spettacolo modulare. Federico Buffa lo sta portando in giro da due anni e con il tempo la struttura di questo si è arricchita e si è limata, ha ora allargato il campo di indagine, ora limato e centrato alcune argomentazioni. È uno spettacolo basato sulla realtà contro-fattuale, e cioè relativa al che cosa sarebbe successo se, le cosiddette sliding-doors (come insegna uno strepitoso film di Peter Howitt con Gwyneth Paltrow). Il titolo dello spettacolo allude ad una storia raccontata dallo scrittore Osvaldo Soriano, in un libro intitolato Futbol: storie di calcio, edito in Italia da Einaudi. La vicenda vede protagoniste due squadre, l’Estrella Polar ed il Deportivo Belgrano, nel lontano 1958, nella ancor più lontana e sperduta Valle de Rio Negro, per le quali la tensione e il groppo in gola che si percepiscono prima di un rigore durarono addirittura una settimana intera.
Lo sport non è che un pretesto per parlare d’altro, un caleidoscopio argomentativo dal quale si diffranno antropologia dello sport, storia del Novecento, teoria dei giochi, storia delle arti; parafrasando Douglas Adams, la vita, l’universo e tutto quanto. Uno spettacolo che si mostra altresì nel suo configurarsi come espressione di un taccuino di viaggio, dal Perù a Barcellona, da Torino a Manchester, dall’Africa agli States. Federico Buffa allestisce un pantheon, una cattedrale sportiva di icone dall’aura quasi sacrale: Muhammad Alì, George Best, Lionel Messi, Bob Dylan, i Beatles, Neil Armstrong, il partito Sendero Luminoso, Elis Regina e Garrincha. Uno spettacolo che però fa perno – più che sui contenuti – sulle smisurate capacità narrative di Buffa, senza dubbio uno dei modelli italiani del racconto contemporaneo transmediale. Lui che ha riportato la narratologia nel vissuto sportivo su un piano analitico multilaterale, una dilatazione assoluta del discorso, che concretizza la regola aurea di Josè Mourinho da Setùbal, sintetizzata nel motto chi sa solo di calcio non sa niente di calcio.