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Sdirazzare: il mondo visto dal margine – 2000km a est

Sdirazzare: il mondo visto dal margine – 2000km a est

“Tu cosa ti senti?” Sembra una domanda innocua. “Italiana? Rumena? Entrambe o nessuna?” Sembra una domanda senza conseguenze. Ma dopo che me la pongono inizio a pensarci sempre di più, forse per la prima volta affronto questo pensiero e tutti i sentimenti che ne scaturiscono. Mi rendo conto, infatti, che ho trent’anni e questa domanda io non me la sono mai posta. Cosa sono io? Cosa mi sento?

Il passato

Ho due nomi e questa cosa fino agli otto anni sembrava normale, poi ci ho combattuto contro. Sono nata in una città del nord est della Romania. Ho vissuto i miei primi anni di vita in un paese, più correttamente un villaggio, molto povero, privo di acqua corrente, un bene e servizio che ho scoperto essere primario solo molto tempo dopo l’infanzia. La prima parte della mia vita è offuscata e confusa, pochi ricordi, in una lingua familiare e allo stesso tempo estranea, soprattutto adesso che penso e parlo in italiano. 

Improvvisamente (forse nemmeno così tanto) c’è stato il trapianto qui in Valdichiana, quella che forse adesso chiamo casa, ma chissà se lo è effettivamente. Le prime emozioni che ricordo sono ottimismo e allegria e poi rabbia, disagio, spaesamento. Ottimismo e allegria sono stati i miei compagni di viaggio, quello reale che ho fatto insieme a mia nonna per raggiungere l’Italia. Non sapevo bene cosa aspettarmi: avrei rivisto la mia mamma, che non è poco per una bambina di otto anni; poi mio fratello minore che i miei genitori avevano portato in Italia un anno prima. Finalmente avrei conosciuto anche l’atro fratellino, il più piccolo. Lui era nato quasi un anno prima, ma io l’avevo visto solo in foto e sporadicamente avevo sentito racconti su di lui attraverso una cornetta telefonica. 

La rabbia, il disagio e anche la vergogna sono subentrate dopo. Ho iniziato la scuola e non sapevo parlare, non ero preparata e forse nemmeno avevo realizzato bene che la mia vita si sarebbe svolta in una lingua diversa da quella che conoscevo. Lentamente è nata in me la vergogna. Vergogna dell’essere diversa, di non essere come tutti, di avere due nomi, di cui uno con una lettera che si aspira (chissà a mio fratello come è andata, forse anche peggio di me), del mio accento, del mio aspetto e anche del paese da cui venivo. Inizio a capire quello che si diceva della Romania e dei rumeni, una serie di luoghi comuni: gente che ruba, gente che è qua a far danni, z*ng*ri e altre cose. Non lo scrivo con risentimento o acredine, erano i primi anni 2000 e poco era conosciuto degli altri paesi e delle persone che li abitavano. Allora, però, tutte queste cose mi rimanevano impresse in testa e immagino anche che non fossero tutte negative, ma ormai recepivo benissimo solo quelle. 

Tutt’ora mi mette a disagio e mi fa perdere un battito cardiaco la domanda: “Da dove vieni e di chi sei figlia?”. Come spiego alla signora del paese in cui vivo, un paese di quasi 3000 abitanti, che i miei genitori non li conosco? Che sono arrivati qua, tra mille difficoltà, a cercare un’opportunità diversa? Come le spiego da dove vengo? 2000 Km a est, un villaggio circondato da montagne che conoscevo, con un fiume nel mezzo che amavo e temevo a ogni pioggia abbondante, una casa sgangherata, un giardino pieno di rose e un frutteto ricco di pruni per fare la grappa. 

Ecco, tutto ciò è rimasto sopito dentro di me, chiuso a chiave, nascosto per non essere diversa. 

Anche la scuola ha avuto il suo ruolo in tutto ciò. A malapena si studia la storia e la cultura in cui uno vive ed è immerso, il poco spazio che rimane non basta per un approfondimento su un paese straniero, marginalizzato e dell’est Europa. 

Di mio ci ho poi aggiunto il rifiuto totale, la negazione, ed eccoci qua a trent’anni a fare ammenda per le mie colpe e il mio disinteresse per tutto quello che ero e per il luogo da dove sono arrivata. 

Il presente

Il tempo è passato e sono cresciuta. Tutte le cose sopra descritte sono andate sempre più in profondità fino a quando ho smesso di pensarci. Oggi la mia lingua è l’italiano: sogno, amo, vivo e penso in italiano; raramente penso in rumeno e quelle poche volte che succede cambio quasi automaticamente lingua. La cosa strana è che la mia capacità di pensiero in rumeno è pari a quella che potrei avere in francese, spagnolo e inglese (tutte lingue che ho studiato). Allo stesso tempo mi rendo conto di poter fare molto di più con quella lingua e che, oltre a comprenderla perfettamente, ho tutte le basi per parlarla e pensarla in maniera impeccabile. I numeri invece sono un’altra faccenda: di primo impatto li penso in rumeno ma è una sensazione strana; li penso in rumeno, ma li vedo in italiano, se devo fare un calcolo lo faccio in rumeno e do la risposta in italiano. Mi rendo conto che questo discorso non è per niente semplice da seguire, dovrei parlarne con qualcuno che ha avuto un percorso che assomiglia al mio.

Conosco persone con storie simili: ammetto, però, che la maggior parte, se non la totalità, parla bene la lingua di nascita, conosce il posto da cui arriva ed è rimasta fiera delle proprie origini.

Adesso che sono grande, inizio a sentire la fatica del vivere in un paese che non mi riconosce, o che io stessa con tutte le mie paure, ansie, paranoie penso che non mi riconosca. Oggettivamente io non sono cittadina italiana e non ho diritto di voto, però vivo qua con tutti i doveri. Ho studiato qui, ho assimilato e fatto mia la cultura di questo paese, amo il cibo italiano, amo la letteratura italiana, amo i piccoli borghi medievali che solo in questo paese esistono. Eppure, non mi sento riconosciuta.

Il processo

Ed eccoci qua a parlare di cittadinanza, secondo il vocabolario Treccani: condizione di appartenenza di un individuo ad uno Stato, con i diritti (politici, voto e possibilità di ricoprire pubblici uffici) ed i doveri (fedeltà e obbligo a difendere lo stato) che tale relazione comporta. 

Se non si è cittadini italiani, ma si abita e si vive in questo stato fin da quando se ne ha memoria, come si acquistano tale diritto e conseguenti doveri? La normativa che disciplina l’acquisto della cittadinanza è la legge 5 febbraio 1992 n.91. Sul sito del Ministero dell’Interno si fa riferimento proprio a tale legge e a quelle successive di attuazione, in cui vengono elencati i requisiti per cui la cittadinanza può essere concessa. Tra questi, essere residenti in Italia per un tempo variabile a seconda della parte del mondo da cui si proviene e dimostrare di avere redditi sufficienti al sostentamento. 
Il sito del ministero rimanda poi al portale dei servizi in cui è possibile inoltrare la domanda telematica. Lì vengono elencati i documenti da avere al momento della richiesta, nel mio caso per residenza anagrafica: 

  • documento di riconoscimento;
  • atto di nascita e certificato penale forniti dalle autorità del Paese di origine;
  • certificazione attestante la conoscenza della lingua italiana, non inferiore al livello B1 del QCER, sono esclusi coloro che abbiano sottoscritto l’accordo di integrazione di cui all’art. 4 bis del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, o che siano titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo di cui all’art. 9 del medesimo testo unico;
  • titolo di soggiorno; 
  • dichiarazione dei redditi degli ultimi tre anni, proprie o dei parenti di primo grado presenti sul proprio stato di famiglia
  • ricevuta del pagamento del contributo di euro 250,00 previsto.
  • estremi della marca da bollo telematica. 

La documentazione richiesta potrebbe sembrare semplice e facilmente reperibile, ma in realtà comporta numerosi viaggi all’ambasciata competente, poiché spesso non è possibile ottenere tutti i documenti in un’unica giornata. Ad esempio, per un cittadino rumeno, ottenere un certificato di nascita apostillato e nel formato europeo può richiedere in media tre mesi. Altri documenti necessari possono essere ottenuti presso il comune di residenza o enti specializzati, come quelli linguistici, per chi deve attestare la conoscenza della lingua. Una volta raccolta la documentazione ed effettuato il pagamento, si accede al sito del Ministero dell’Interno, dove si compilano una serie di pagine preimpostate e si caricano tutti i documenti online. A quel punto, la domanda viene inoltrata e il processo passa interamente nelle mani dello Stato. Inizia l’attesa, spesso accompagnata da preoccupazioni riguardo alla burocrazia, alla correttezza della documentazione presentata, e al timore di non aver fatto abbastanza per dimostrare di meritare la cittadinanza.

La procedura prevede circa sette passaggi, e il tempo di attesa minimo è di almeno due anni. Personalmente, ho effettuato il login al sito almeno due volte a settimana, nella speranza di vedere una comunicazione o un aggiornamento sullo stato della pratica. Per molte persone potrebbe non essere un peso, ma per me è stato estenuante. Spesso ho pensato che non avrei mai visto la fine di questo processo, che fosse in senso positivo o negativo, e questo mi ha portato a vivere con un costante senso di preoccupazione e agitazione.

Questi sentimenti e tutto il processo, che è durato trentasei mesi dal momento in cui ho iniziato a recuperare i documenti al momento in cui mi hanno chiamata per presentarmi in prefettura con la documentazione originale, hanno portato in me un senso di disagio, pensieri scomodi e riflessioni su tutto questo.  

Il privilegio della cittadinanza

Di seguito alcuni punti che ho trovato problematici: 

  1. Requisiti economici e giustizia sociale: è davvero appropriato utilizzare criteri economici per stabilire chi possa essere cittadino italiano? Molte persone si sono viste respingere la richiesta di cittadinanza perché i contributi versati nei tre anni precedenti non erano considerati sufficienti. Ma perché quei redditi erano insufficienti? Spesso i contratti offerti a persone straniere sono svantaggiosi e non consentono un reale sostentamento, creando un problema sociale e sistemico che richiederebbe un intervento serio. Forse questo non è il contesto più adatto per affrontare il tema, ma riflettiamoci: in fondo, si tratta di giustizia sociale. Quando questa manca, non solo gli individui ne soffrono, ma intere comunità ne risentono. 
  2. Giustizia linguistica: chi è cresciuto in Italia non ha bisogno di dimostrare la propria conoscenza della lingua, il titolo di studio è sufficiente. Tuttavia, capire quali siano gli enti preposti al rilascio della certificazione linguistica non è sempre semplice, neppure per chi parla perfettamente l’italiano. E una persona che vive in Italia da cinque anni, che soddisfa i requisiti economici ma non padroneggia ancora bene l’italiano, come può essere facilitata in questo processo? Inoltre, dovremmo anche chiederci perché quella persona non parla bene l’italiano, quali siano le sue difficoltà linguistiche e se ha avuto effettive opportunità di integrazione. Spesso chi arriva da un paese straniero incontra notevoli difficoltà nell’integrarsi e l’unico gruppo sociale di riferimento è costituito da altre persone della stessa comunità di origine. 
  3. Burocrazia: si parla tanto di digitalizzazione, eppure reperire i documenti necessari è ancora complicato, e non è possibile ottenerli per via telematica. Ogni volta bisogna recarsi di persona presso vari enti per ottenere la documentazione. Io mi considero fortunata e privilegiata: il mio lavoro mi permette di avere orari flessibili e di assentarmi senza dover richiedere ferie o fornire giustificazioni, poiché posso recuperare le ore perse. Ma non tutti hanno questa possibilità. Anzi, nella maggior parte dei casi le persone devono assentarsi dal lavoro, usando le ferie per queste incombenze anziché per riposarsi. Ma è davvero necessario tutto questo spreco di tempo e di risorse? Personalmente, ho dovuto recarmi all’ambasciata di Bologna tre volte, senza contare le numerose visite al mio comune. Tutto ciò richiede sforzo, tempo e spese economiche (ogni documento è accompagnato da una marca da bollo da 16 euro). Se si considera tutta la documentazione e si aggiungono i viaggi e le giornate di lavoro perse, si può facilmente arrivare a 200-400 euro. Queste spese spesso lasciano un senso di amarezza, perché viene da pensare che siano soldi sprecati piuttosto che un investimento. 
  4. Emotivamente: questo processo è devastante, ci si sente costantemente sotto accusa. Spesso i documenti non risultano adeguati, costringendoci a ricominciare da capo. È una situazione difficile da affrontare, e credo che anche la persona più stabile e sicura avrebbe dei momenti di debolezza.

In definitiva, la cittadinanza sembra essere un privilegio riservato a pochi, a coloro che, in quel momento, possono permettersi di affrontare una spesa significativa. Oltre al costo economico, si tratta di un percorso che richiede tempo, pazienza e risorse emotive. Questo processo finisce per escludere chi non ha i mezzi necessari, crea una barriera che divide chi può permetterselo da chi, per motivi economici o di altro tipo, si trova a dover rinunciare a un diritto fondamentale. In un sistema che dovrebbe essere equo e accessibile, la cittadinanza diventa un simbolo di disuguaglianza. Rendere il processo più snello e accessibile non solo avrebbe un impatto positivo sui singoli individui, ma rafforzerebbe anche il tessuto sociale e culturale del paese, facilitando l’integrazione di tutte le persone coinvolte.

Come tutto ciò possa essere fatto rimane per me una domanda aperta, ma questo articolo potrebbe essere il punto di partenza per riflettere all’interno della nostra comunità: quali possono essere le strategie per riformare il sistema? Come possiamo fargli esprimere davvero i principi di equità e inclusione a cui tutti dovremmo aspirare?

-Anonimo

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