Quanta lucidità nelle parole e nelle raffigurazioni che Luigi Pirandello ha immesso nei suoi lavori. Quanta cinica e deflagrante analisi naturalistica nei raziocini spiattellati sulla scena delle sue opere. Operazioni talmente nitide da sembrare folli: mettere a nudo l’essere umano, renderlo quanto più spogliato dai principi di realtà. Impostare il discorso letterario (e teatrale, certo) secondo termini di comparazione di forma imposta, e quindi “civiltà”, reticolo collettivo di connivenza, da una parte, e vita pura, principio di piacere, legatura istintuale delle azioni, dall’altra.
Il Berretto a Sonagli, è un testo scritto esattamente cento anni fa. Pirandello ha acquisito, non di certo dagli ingombranti apparati critici che hanno appesantito le sue declinazioni rappresentative, nuove ragioni d’essere, connotazioni dettate dalla complessità acuita dei rapporti umani e delle strutture sociali.
Non esiste più il delitto d’onore, certo, i costumi sono diversi, certo, ma i rapporti di forza, le reverenze, il totale asservimento dell’uomo ai canoni della convivenza, sono rimaste le stesse, e anzi si sono finanche intorpidite. Quante maschere ha l’uomo contemporaneo? Moltissime in più rispetto a quelle di Vitangelo Moscarda, di Marta Pentagora/Alvignani, di Martino Lori e di tutti gli altri non-personaggi che costellano la bibliografia del nostro più grande autore di teatro. Oggi le quotidianità sono frazionate in più livelli, i contesti sono moltiplicati, le nostre personalità sono divenute addendi a comporre un mosaico frastagliato di io muti e relativi, incuneati in altrettanto fasulli “profili” da social network.
Con questa premessa, l’idea di portare al Teatro Arrischianti due repliche de Il Berretto a Sonagli, avuta da Gianni Poliziani (erto ormai ad Autorità del teatro locale), non può che essere ben accolta. Sì perché presentare in scena la vacuità delle relazioni contemporanee, la visiera a coprire i dati di fatto, non fa semplicemente riflettere, ma fa imparare. Soprattutto quando a presentarla sono attori locali, facce conosciute, ottime per porre lo spettatore spalle al muro, con un obbligo di affronto verso l’ineludibilità delle maschere. Ecco infatti chela vicenda applicata alla scena è ovviamente percepita in quanto fictio (chiaro che sia finta, la stanno addirittura interpretando persone che possiamo trovare quotidianamente per le vie di Sarteano e Montepulciano) ma l’ingegno teatrale vuole che, attraverso la finzione, si dimostri la più alta delle verità; che non esiste cioè verità oggettiva, che anche noi spettatori, seduti sulle nostre comode poltrone vellutate, dentro le nostre giacche tight, i polsini inamidati e la mano della nostra compagna stretta sulle gambe, stiamo recitando. Fingendo. Indossando, non una, ma quante più maschere ci convengono. Tacendo sui nostri contenuti più illeciti, in modo che attraverso il non-parlarne, il rappresentarli quindi come non-esistenti, essi smettano fattivamente di sussistere.
Uno spettacolo prezioso. Ottime le tensioni costruite in scena. Ottime le geometrie connaturate dalle posizioni degli attori in relazione alla scenografia post-atomica e minimale, curata da Gabriele Valentini; uno schermo quasi teso all’infinito, con un utilizzo prepotente del velatino sul fondale (sfruttato però nel migliore dei modi, con le controscene illuminate).
Le tirate monologiche sono state alleggerite dai fraseggi comici – ben assestati e precisi – di Giacomo Testa e dagli scambi ritmici dei protagonisti, interpretati dallo stesso Gianni Poliziani (nei panni di Ciampa), da Martina Belvisi (Beatrice) e Guido Dispenza (Fifì). Splendidi i costumi curati da Vittoria Bianchini, e tutta la compagnia degli Arrischianti, che sta – pare – alzando la barra del livello della scelta dei testi. Una pregevole scelta didattica sia per gli spettatori che per gli attori.