In un libro intitolato The Future of Nostalgia, la comparatista russa, ma americana di adozione, Svetlana Boym – docente di Letteratura Comparata all’Università di Harvard – prevedeva come il sentimento della nostalgia diventasse, in questo decennio, una categoria epistemologica che sottendesse a molti dei fenomeni e delle realtà componenti la storia del tempo presente. Un senso poetico di cui gli esseri umani si sarebbero permeati, nello smarrimento della ‘fine della storia’, per il quale l’autrice utilizza l’immagine sinottica, recuperata dalla Bibbia, dello sguardo della moglie di Lot, sulla città di Sodoma in fiamme.
Per carità, la nostalgia – ed è bene ricordare che per etimo, dal greco, già richiama l’Ulisse di Omero, visto che il composto tra nòstos (viaggio di ritorno) e àlgos (dolore), e quindi ‘dolore del ritorno’, riguarda in letteratura, prima di qualsiasi altra opera, l’Odissea – è un topos letterario plurimillenario. In questo decennio, anzi in questa seconda metà degli anni dieci, però, la nostalgia si è come sublimata e dallo stato di ‘sentimento’, di ‘alone poetico’, si è cristallizzata in ‘categoria estetica’, in codice di lettura delle cose. E così, in questo 2017, abbiamo la Vaporwave, contiamo centinaia di pagine Facebook dedicate al passato e al ricordo dei ‘fasti di un tempo’, la persistenza di icone anni Novanta nelle linee stilistiche delle principali griffe internazionali che espongono grafie seapunk, abbiamo hit estive nel cui testo si elencano frame culturali di vent’anni prima, e l’enunciato centrale del brano è “ma che ne sanno i 2000”.
Ecco, da una band come i Baustelle, che proprio nel 2000 hanno pubblicato il loro primo disco intitolato Sussidiario Illustrato della Giovinezza, che già era intriso di una particolare nostalgia per periodi storici, i quali – a parte le vacanze dell’83 – nessuno dei componenti della band aveva veramente vissuto (gli anni ’60, la Francia di Gainsbourg e degli Chansonnier, quella della Nouvelle Vague, la Roma de La Dolce Vita), di questi tempi intrisi di nostalgia inacidita, ci si aspetta qualcosa di illuminante. Da Francesco Bianconi, poi, che in un’economia sommaria della storia delle recenti humanities nazionali, ha lo stesso peso culturale di un grande autore letterario come Walter Siti – è indubbio che la generazione cosiddetta ‘dei millennials’ abbia recepito plessi culturali più rilevanti dal pop che da tanta letteratura – ed è addirittura citato, come termine artistico di riferimento, da scrittori autorevoli come Giuseppe Genna o Giordano Tedoldi, quello che si auspicava era una lettura del presente lapidaria, forzatamente snobistica e distaccata. Così è stato.
L’Amore e La Violenza, è un disco che può essere perfettamente letto come ‘nostalgico’. Dopo la mangrovia sonora, la complessità compositiva, orchestrale, che ha caratterizzato Fantasma, i Baustelle sono tornati ad un suono più crudo, ‘sintetizzato’. Gli arrangiamenti sono quanto più possibile analogici, composti soprattutto con Korg MS 20, Minimoog Voyager, mellotron anni Ottanta e campionamenti presi da dischi pubblicati tra il 1975 e il 1985. Nei testi si utilizzano dati recuperati dalla discografia italiana a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, c’è Amanda Lear che dà il titolo ad uno dei singoli di lancio del disco, c’è l’Eurofestival, c’è tutto un paradigma di riferimenti simbolici: c’è un’improntitudine della coloristica era del riflusso come agoghé dello spirito, una golden age di sistemi che mantenevano un ordine stilistico oggi irrimediabilmente perduto.
La tournée de LAELV è iniziata d’inverno, ha riempito i principali teatri d’Italia, per poi spostarsi, nel suo formato estivo L’Estate, L’amore e La Violenza nelle piazze e nelle ambientazioni più suggestive dello stivale. Si è conclusa venerdì 29 settembre 2017, in Piazza del Campo a Siena, all’interno del programma di eventi di Bright – La Notte dei Ricercatori, organizzata dalle Università cittadine. Francesco Bianconi è un ex studente dell’UniSi, e lo esplicita anche, prima di eseguire La Moda del Lento «questa canzone l’ho scritta qui, anzi lì, un po’ di anni fa». La fine del tour che ha portato in giro questo disco “nostalgico”, nel capoluogo di provincia che ha dato loro i natali, non può non caricare di significati ulteriori i brani eseguiti.
Il concerto, di per sé, ha incontrato alcuni problemi, sia tecnici che logistici: durante i saluti, ad esempio, un tizio evidentemente su di giri è riuscito ad elidere i guard, in giacca nera, con la testa liscia tra gli auricolari, e salire sul palco, chiedendo a Francesco di “poter cantare una canzone”. Francesco Bianconi ha sorriso, come hanno sorriso gli altri intorno a lui: il clima era pacificato, da “viaggio di ritorno”. Addirittura ci scherza su: «Guarda, stai tranquillo, se ci organizziamo adesso facciamo cantare tutti». Probabilmente non avrebbe reagito così dieci anni fa, Francesco, quando portava le T-Shirt di Adam Green sotto le giacche tight, sui palchi dei Club che stipavano mille persone in novecento metri quadri, gli occhiali a montatura spessa e i capelli lunghi cerati, quando ancora il luogo di confronto era MySpace, il quartiere Isola di Milano – diceva – era una cava di cantieri a cielo aperto e Siena ancora era cullata da una floridità finanziaria, con la Mens Sana ai vertici del Basket europeo e l’estate che si chiudeva con i concerti di caratura internazionale con la rassegna Città Aromatica. Non avrebbe reagito così, specie a Siena, in quella fascia collinare, verso la quale c’era il canonico sentimento ambiguo che si ha nei confronti di una terra natale dalla quale si è andati via.
Uno dei primi brani composti dai Baustelle è “I Provinciali”, sebbene appaia solo nel terzo album, La Malavita: una bella canzone, che panneggia con arguta giustapposizione lessicale, in un’ellissi di figure, l’ecosistema della provincia italiana vissuta in prima persona da Francesco, Rachele, Claudio e Fabrizio (il ‘quarto’ Baustelle, che uscirà dal gruppo subito dopo aver concluso proprio le lavorazioni de La Malavita). Il registro lirico, si pone su un piano antagonista rispetto allo stato delle cose che si vivono in provincia: quella rappresentata è una «provincia cronica», come fosse una malattia invalidante. Oggi le cose sembrano cambiate: dopo Le Rane, dai Baustelle – specificatamente Francesco e Rachele, perché Claudio di fatto non se ne è mai andato – l’appertenenza territoriale è manifestata in più occasioni. Molte date dei tour toccano la valdichiana e la toscana meridionale, ogni volta acuminando i sovrasensi che permeano i brani nati lì. Ed è proprio riguardo a questa relazione la prima cosa che domando loro, appena ho l’occasione di scambiare due parole, alla fine del sound-check.
Com’è cambiato il vostro rapporto con questa parte di mondo?
Francesco: «L’approccio antagonista de I Provinciali, che tratteggiava il posto in cui siamo nati, attraverso i suoi difetti, come un luogo da cui si vuole scappare, non era riferito alla Valdichiana. Potevamo essere nati in Lomellina, o in provincia di Matera, e sarebbe stato lo stesso. I Provinciali era una canzone che parlava dello ‘stare stretti in un posto’. Questa cosa succede spesso, indipendentemente dalla provincia. È più che altro una tensione giovanile, secondo me, ed è anche giusto che ci sia. Non significa necessariamente essere cattivi, o irriconoscenti, verso il posto in cui si è nati. Il provincialismo è una condizione dello spirito».
Rachele: «Penso sia una condizione dell’adolescenza. ‘Sentirsi stretti in qualcosa’ è una sensazione che poi permane. Diventa anche uno stimolo a superare sempre i limiti che ci costringono, ad andare oltre, cercare cose nuove. Ovviamente, i luoghi che ci circondavano in Valdichiana offrivano meno possibilità, rispetto a quante se ne potessero trovare in città. Ma, se vuoi, era quello il bello: faticavi per cercare contesti che fossero più affini ai tuoi interessi, c’era una curiosità enorme, più fame: era un’occasione di ricerca continua che ci manteneva in attività».
Claudio, ad esempio, vive tutt’oggi in Valdichiana. Come leggi a distanza di anni I Provinciali?
Claudio: «Il concetto è ancora più ampio: si tratta di un luogo, non della provincia. Io a sedici anni ero incazzato. Lo sarei stato allo stesso modo se fossi cresciuto in città. Non c’entra il contesto, era uno stato d’animo. Si è ribelli ed energici, a quell’età».
Francesco: «Esatto, è una condizione dell’età. Per dire, lo sento molto meno adesso. Vivessi oggi qua, sarei molto probabilmente più tranquillo. Non scriverei un testo come quello de I Provinciali. Ma il confronto con il circostante sarebbe più pacificato. Ecco, credo sia una questione dell’essere giovani in provincia».
Cos’è successo alla musica alternativa e indipendente italiana, della quale siete “figli”? La “scena” si è mutata e i termini si sono rovesciati. Gli stessi lemmi “alternativo” e “indie” si sono banalizzati. Abbiamo dischi prodotti da artisti indipendenti che sono in classifica e altri, che hanno alle spalle delle major, che invece fanno fatica. Come vedete il panorama indipendente e quello alternativo, oggi, in Italia?
Francesco: «Dipende da cosa si intende per indipendente… dunque, c’è stato un periodo – quello nel quale siamo cresciuti noi – in cui c’era, in Italia, un fiorire di musica, che per brevità chiamiamo rock, che aveva molto seguito: vendeva dischi, produceva concerti, se ne parlava in giro. C’era una coincidenza tra l’essere indipendenti dal punto di vista contrattuale e uno stile artistico: la musica indipendente era musica fatta in un determinato modo e aveva un suono nettamente diverso da quello che veniva identificato come “non indipendente”, e cioè il mainstream, e quindi tutto quello che andava in radio, passava in televisione, et cetera. In genere, quindi, la musica indipendente era considerata “alternativa” al mainstream. E spesso c’erano cose molto belle: era musica che aveva un approccio volto alla sperimentazione, alla ricerca, e non andava in classifica, salvo alcuni casi. Continuava cioè a vendere di più Ramazzotti, o Zucchero. Oggi ci sono gli indipendenti in classifica: e questo è un bene. “Meno male”, mi viene da dire, gli artisti sono più liberi. Non c’è più però quella differenza. Gli indipendenti vanno in classifica perché suonano esattamente nello stesso modo dei non-indipendenti. Non c’è più nessun tipo di ricerca o nessuna attitudine sperimentale. Non trovo niente di interessante per me, Francesco Bianconi ascoltatore».
Rachele: «Ci sono cose interessanti, certamente, ma non ci interessa. Ho sentito musicisti bravissimi, che però fanno cose che percepisco lontane da un certo tipo di attitudine. Ecco, rispetto agli anni Novanta, a quella scena che ha aperto altre strade, manca l’osare qualcosa in più, l’andare oltre».
Ma dai, ci sarà pure qualcuno che ascoltate, della nuova generazione, dei musicisti emergenti…
Francesco: «Ascolto altro, sinceramente».
Capitava, durante quegli stessi anni delle t-shirt di Adam Green, dei club con le persone stipate, che nelle aule dei Licei Poliziani – dei loro licei poliziani – si rubassero le ore dedicate alla traduzione di Demostene per leggere La Vita Agra, di Bianciardi, per via di quella citazione in Cinecittà, contenuta nel Sussidiario; capitava che si recuperassero gli artisti che a quel disco sembravano essere attigui, Garbo, Faust’O, i Virginiana Miller oppure i Pulp, i dEus, i Divine Comedy, gli Suede, mentre in classifica c’erano – per dire – gli Zero Assoluto; capitava che nel 2006 i concerti dei Diaframma si riempissero di sedicenni, perché era risaputo che ‘quel Fiumani’ fosse uno dei riferimenti ecdotici principali di Francesco Bianconi. Ecco, probabilmente, per quanto inadatti alla memorabilità, per quanto superanti il senso consequenziale delle rappresentazioni, per quanto giovani, quegli stessi liceali (di oggi) acquisiscono ancora simboli, ascoltano artisti nelle possibilità esponenziali dei server online, e si troveranno, prima o poi, a recuperare il Sussidiario, o Amen, poiché – nel loro empito – cercheranno un’oltre, partendo dai riferimenti che quegli stessi artisti suggeriranno loro. I Baustelle “hanno fatto proseliti” e la scena attuale (quella buona, eh, s’intende) è anche e soprattutto figlia loro. E forse – mi auguro – quella che per Francesco e Rachele appare come una “desertificazione” degli espedienti discografici “alternativi al mainstream”, venga rivalutata.
Che la vita, come la storia, procede per cicli, e la nostalgia ne è la chiara esemplificazione emotiva.
Ché sì, il tempo ci sfugge, ma il segno del tempo rimane. Sempre.