Si intitola “A Common Day Was Born”: è il disco di esordio del progetto Ant Lion, composto da Stefano Santoni, già personaggio centrale del progetto Sycamore Age (che ha avuto lo straordinario pregio di riportare il prog al centro della produzione indipendente italiana), Simone Lanari dei Walden Waltz (che già abbiamo incontrato qui) , Alberto Tirabosco, portentoso – e giovanissimo – batterista presentissimo nel soffio punk rock aretino, e l’artista (nell’accezione più totalizzante del termine) Isobel Blank, nome d’arte di Eleonora Giglione. È un lavoro complesso, la cui aura raccoglie una falcata trentennale di musica per brevità detta ‘sperimentale’.
Se noi oggi ascoltiamo musica in un certo modo, prodotta secondo determinati stilemi fissi, con un utilizzo strumentale sancito da certe modulazioni, è perché trentacinque anni fa, Peter Gabriel ha deciso che così dovesse essere. Non è una provocazione critica, ma un dato di fatto; il primo a concepire la contaminazione etnica, i campionamenti elettronici, la ricerca intellettualistica dei suoni ancestrali, come potenziali estensivi delle ritmiche e delle armonie, è stato questo brillantissimo signore inglese, che ha aperto alla storia della musica un ampissimo spazio di crescita e di confronto, edificando il miracolo di una world-music che non fosse la pedissequa registrazione documentaria di ethos musicali antropologicamente degni di diffusione, ma un rinnovamento creativo di contaminazione e ricerca, il quale apportasse nuova linfa al rock. Gli Ant Lion si collocano perfettamente nella linea – consapevole e innovatrice – di questa tradizione. Il disco d’esordio è espresso con un linguaggio polimorfico, aperto alle esperienze più antipodiche – dall’espunzione elettronica della no wave al post-rock – ma incredibilmente coerente. L’aspetto compositivo di “A Common Day Was Born” decolla dall’idea rabdomantica di ricerca energetica sotterranea, propria della parentesi etnica dello stesso Peter Gabriel (l’esperienza di Security, del 1982), per arrivare alle poliritmie delle basse frequenze familiari ad una linea di recente produzione – che ricorda le peripezie math-rock dei Mars Volta o dei Don Caballero – senza tralasciare la grande cesura elettronica che Bjork e i Radiohead hanno immesso nel canone del rock contemporaneo. Le suggestioni arrivano di certo anche dagli ambiti della poesia e dell’arte visuale, della quale Isobel Blank rappresenta una puntuale interprete. Questo disco è il risultato di un imponente lavoro stilistico che ha cercato di contenere le peripezie entropiche dell’improvvisazione – che sottace ad ogni segmento di registrazione, a conferma di un’alta qualità di padronanza strumentale da parte dei musicisti – entro la forma chiusa della canzone. Il vettore fluido delle linee strumentali, che sottende l’aspetto compositivo di ogni traccia, è ben modulato nelle strutture e nel controllo fonico delle componenti. Il risultato è sicuramente positivo.
Ho fatto alla band alcune domande, le cui risposte delucidano meglio questo aspetto della loro produzione.
La prima domanda è abbastanza scontata: venite da esperienze diverse e siete riusciti a rendere sincretiche e complementari le vostre visioni, non solo musicali: dal vettore progressive dei Sycamore Age e psichedelico dei Walden Waltz (progetti che già erano “cugini”), si incrocia il percorso di visual-art di Isobel Blank e i suoi ornatus elettronici, e di Alberto Tirabasco che in tenera età si è fatto spazio nella scena musicale, suonando in una band punk. Quindi: come è nata la necessità di formare un “supergruppo”? Come si è sviluppato l’incastro tra di voi?
Tutto è nato da un’idea vaga ed embrionale di Stefano Santoni (produttore artistico e membro degli Ant Lion), poi il caso ci ha fatto incontrare e ha fatto sì che questo embrione si sviluppasse. Durante la costruzione dei brani e del sound della band, non c’è stata nessuna imposizione da parte del produttore, anzi, ognuno ha saputo interpretare l’idea originaria a modo suo, dando un prezioso apporto artistico con il proprio bagaglio musicale e culturale e la propria personalità. Se c’è un vanto che possiamo concederci, forse è quello di essere stati capaci, l’uno con l’altro, di saper valorizzare e mettere assieme le nostre diversissime caratteristiche, trasformando così potenziali attriti in un sound se non altro assolutamente trasversale ed eterogeneo.
In “A Common Day Was Born” si passa da suoni più asciutti – per quanto raffinatissimi dal punto di vista compositivo – in brani come “Nap”, a commistioni di elementi strumentali plurali, ad esempio in “No Belly”. Come riuscirete a gestire live questa complessità di masse sonore, con una formazione, tutto sommato, “tradizionale”?
Allora, principalmente è bene chiarire che fare un disco, cercando di creare uno stile il più possibile originale, è ovviamente una sfida difficile ma anche un gioco molto divertente. Un gioco nuovo, tutto da inventare, che per risultare tale sia a noi che agli ascoltatori, deve avere delle regole e dei paletti. La sfida più grande è quella di mantenere una coerenza di massima, pur lasciando serpeggiare costantemente nell’album una sana incoerenza.
Venendo alla tua domanda, nel live tutto questo si fa più complicato. Bisogna mantenere il senso dei brani originari ma, allo stesso tempo, bisogna scendere a compromessi di ovvia natura. Meno raffinatezze, più impatto sonoro… e se proprio non se ne può fare a meno, allora siamo sempre pronti a smembrare il brano per ricomporlo in una formula che sia più funzionale on stage.
Questo lavoro sembra sancire una certificazione di qualità alla scena musicale aretina. Registrato alla Ibexhouse di Fiori (autorità della ‘canzone indipendente italiana’), mette insieme musicisti germogliati dalle più esaltanti semine musicali degli ultimi anni. Cosa ne pensate della scena musicale del vostro territorio? Credete che Arezzo stia veramente diventando un centro, almeno per quanto riguarda la musica?
Dal canto nostro, noi abbiamo sempre fatto di tutto perché in questa piccola città si creasse un ambiente fertile per la cultura musicale e non solo. Non tanto per uno spirito campanilistico, quanto per creare un ambiente piacevole innanzitutto per noi stessi. Un ambiente in cui si possano scambiare idee, in cui le menti possano ricevere gli stimoli giusti per poi darne altri a loro volta. Ci siamo sempre dati da fare in tal senso, semplicemente perché crediamo che vivere in un luogo ricco culturalmente sia un bel modo di vivere.
La loro esibizione di sabato 17 giugno al GB20 – con ingresso libero per tutti i possessori di tessera CAT 2017, ottenibile a dieci euro sul luogo del concerto – è interessante soprattutto per questo: se il lavoro in studio rivela una serie di possibilità sfarfallate, per ogni segmento sonoro, il live – di questa band – è potenzialmente l’occasione per testare l’effettiva capacità energetica e sincretica dei musicisti. Un’occasione per respirare l’afflato contemporaneo del nostro territorio, che siamo fieri veda sorgere novità musicali di questa caratura.