Tutto pronto a Celle sul Rigo, piccolo borgo medievale nel profondo sud della provincia senese, per una nuova edizione del Palio del Cacio, che si terrà il 14 agosto. Da oltre quindici anni, tra le vie del paese, si può rivivere quell’atmosfera spensierata, quell’allegria pura e autentica che i nostri nonni provavano nel periodo di Carnevale, quando tradizionalmente si giocava “al cacio”. L’evento, organizzato dalla nuova Associazione Pro Loco di Celle sul Rigo, vede quest’anno una novità assoluta: accanto alla consolidata gara dei big, per le quattro contrade cellesi si sfideranno anche i bambini.
Il gioco del cacio, gemello di quello della ruzzola, ha origini antichissime, e affonda le sue radici in numerose culture popolari di tutta la penisola. Tracciare dunque una storia precisa di questo “sport” millenario risulta alquanto difficile.
L’Ottocento rappresenta un momento importante per la riscoperta e la rivalutazione di questi passatempi popolari, grazie anche alla nascita dell’etnografia. Per la cultura romantica infatti, sono questi piccoli ritagli di vita quotidiana che ci raccontano l’autentico Volkgeist, lo spirito del popolo, l’espressione identitaria più autentica di una comunità. Prima del XIX° secolo le uniche testimonianze reperibili per il gioco del cacio e della ruzzola, sono di matrice giuridica, volte a regolamentare queste attività. Per molto tempo infatti l’interesse di letterati e studioso fu rivolto a giochi più illustri, o che avessero l’aura nobile della classicità greca e latina.
Eppure diversi indizi ci riportano ancor più indietro dell’Ottocento, fino alla tomba dell’Olimpiade nella necropoli etrusca di Monterozzi di Tarquinia, nella quale è raffigurato il discobolo o lanciatore. La posizione del discobolo è quella tipica di chi sta per lanciare una forma di cacio o una ruzzola, e questa iconografia non è presente in altre testimonianze coeve. Anche durante l’impero romano troviamo tracce del gioco della ruzzola, come si evince da un passo di una commedia di Plauto, la Persa.
Nel Medioevo il gioco assunse una connotazione ambivalente. Molto spesso fu inviso all’autorità, in quanto causa di disordini pubblici, poiché legato al mondo delle scommesse e al gioco d’azzardo. Inoltre la forma di cacio era un premio molto ambito, perché poteva significare la sopravvivenza di una famiglia, e questo rendeva l’agone ancor più sentito.
Come detto con la riscoperta della classicità l’interesse verso i passatempi del popolino andò progressivamente scemando, ritenuti volgari e poco aulici. Questo oblio durò per circa tre secoli, dal Rinascimento fino al Settecento, quando in diverse parti d’Italia il gioco, sia con il cacio che con la ruzzola di legno, venne vietato eccetto che nel periodo di Carnevale.
È del 30 aprile 1863 il documento più antico che attesta la presenza del gioco del cacio nel piccolo borgo di Celle sul Rigo. Lo scritto, appartenente al Comune di San Casciano dei Bagni, è un vetusto regolamento nel quale possiamo leggere, oltre alle norme del gioco, un interessante articolo, che ci mostra come potesse essere, a discapito delle apparenze, alquanto pericoloso lanciare a gran forza una forma di cacio di 1 kg:
Art. 24 – I giuochi di palla, bocce, ruzzola, e formaggio sono vietati nelle vie e nelle piazze del Paese, destinando a tale scopo per Celle: La strada che conduce a Radicofani partendosi dal Nespolo, per il giuoco della ruzzola, ruzzoloni e formaggio. La strada attorno alla Rocca per il giuoco delle bocce. I contravventori agli articoli contenuti in questo titolo incorreranno nell’ammenda di Lire cinque.
Inoltre un’altra regola aurea, rimasta in vigore fino agli anni’50-60 dello scorso secolo, era che alla competizione potessero partecipare solo gli adulti.
La bellezza di questo gioco risiede dunque nel rischio, nell’azzardo, ma soprattutto nella semplicità, una semplicità mai banale, ma ricca di maestria. I nostri nonni nell’ultimo giorno di Carnevale, dovevano scegliere con cura la migliore traiettoria per condurre la forma di cacio tra le anguste vie del paese. Scalini, sporgenze, avvallamenti, discese improvvise e il piede di qualche spettatore distratto, erano ostacoli frequenti, che potevano compromettere la vittoria finale.
Il vincitore, oltra a coprirsi di gloria imperitura nella memoria dei compaesani cellesi, poteva mettere le mani in qualcosa di ben più ambito, in anni nei quali si eri costretti, dalle necessità, a badare di più alla sostanza. Un chilo di formaggio significava non solo passare un Carnevale all’insegna dell’allegria, ma un’intera annata.
Semplicità dunque, ma anche perfezione e condivisione. Sono questi i termini che meglio di molti altri possono narrare l’anima antica di questo gioco. Nella compiuta circolarità della forma di cacio, è possibile scorgere un susseguirsi senza fine tra le diverse generazioni, il perdurare di una tradizione che non trova esito, l’eterno ritorno dell’uguale.
E quando il formaggio, urtando contro qualche angolo, si rompe e sparge i suoi pezzi sul selciato, ecco che la perfezione diventa condivisione di sapori e aromi con l’avversario.