Per Chianini nel Mondo abbiamo intervistato Giulia Spinelli, ballerina e giovane coreografa professionista che ha solcato i palchi di alcuni dei teatri più importanti del mondo e che quest’anno, a soli ventinove anni, festeggia dieci anni di carriera. Giulia inizia il suo percorso con la danza appena impara a capire come muovere il suo corpo, sua mamma, vede una luce particolare tra quei movimenti istintivi e naturali e così la iscrive alla sua prima lezione di danza.
Ora, dopo venticinque anni passati a ballare e a chiamare “casa” la danza, a Giulia si illuminano ancora gli occhi quando pensa alle sensazioni che prova stando su un palco, ai visi delle persone sedute all’interno del teatro, al suo corpo con cui ha un dialogo vivo e aperto, che le permette di fare quello che ha sempre voluto.
Ti va di raccontarci i primi anni della tua vita e il modo in cui hai iniziato a studiare danza?
“Ho iniziato a fare danza in una scuola privata a Sinalunga gestita da Cinzia Salvini, poi a undici anni sono entrata all’Accademia Nazionale di Danza di Roma. Lì ho passato sei anni a studiare e la mia vita si è praticamente trasferita totalmente a Roma. All’età di 16 anni circa mi sono trasferita in Francia e ho fatto un anno di studi all’Ecole Nationale Superiore de Danse de Marseille, l’anno dopo ho partecipato ad una Summer Intensive della Joffrey Ballet school a Firenze durante la quale ho conosciuto Davis Robertson e Nicole Duffy; persone fantastiche che all’epoca dirigevano la Joffrey Concert Group, una compagnia di giovani ballerini che si preparano per entrare nel mondo professionale lavorativo, collegata alla Joffrey Ballet School di New York, i quali mi hanno offerto di trasferirmi e studiare là.
Una decisione che ho preso in pochissimo tempo, se consideri che eravamo in piena estate e io, a settembre, sarei dovuta tornare in Francia, e invece mi sono ritrovata a guardare dai finestrini del taxi i grattacieli di NewYork a diciassette anni.
Alla Joffrey ho passato due anni importantissimi, durante i quali ho fatto tantissime esperienze molto importanti per la mia carriera e centinaia e centinaia di provini e audizioni, che, a diciannove anni, mi hanno portata ad avere il mio primo contratto lavorativo come ballerina professionista a Ballet Memphis.”
Quando si parla di mondo della danza, per chi ignora un po’ le reali dinamiche, si pensa subito a un mondo elitario, fatto per quei pochi che riescono a non farsi abbattere da insegnanti e maestri diabolici e da ritmi infernali. Tu come hai vissuto il rapporto con gli insegnanti e il rapporto con il tuo corpo duranti gli anni di studio?
“Diciamo che quelle lamentele spesso sono vere, io però devo dire che ho avuto la fortuna di non avere mai avuto troppi problemi da questo punto di vista. Certo ho incontrato anche io insegnanti che purtroppo erano concentrati talmente sull’obiettivo di farci diventare dei ballerini tanto da scordarsi che eravamo comunque persone e come tali avevamo bisogno di empatia e considerazione. Ho visto tante mie colleghe soffrire per come venivano trattate, arrivando a sviluppare disturbi alimentari, a me ha sicuramente aiutato avere un carattere abbastanza sviluppato e forte per non farmi abbattere. La mia vera fortuna però sono state, e sono tutt´oggi, le persone che mi stanno accanto, la mia famiglia, il mio partner, i miei amici…insomma le persone che mi vogliono bene e che mi hanno sempre supportata in qualsiasi cosa, ricordandomi chi ero e facendomi sentire la loro vicinanza anche quando eravamo lontani migliaia di chilometri. La danza spesso non è solo bravura, ma anche tanta fortuna e coraggio, io ho avuto la fortuna di avere entrambi.”
Passiamo alla tua carriera professionale, a diciannove anni, dopo centinaia di provini entri a Ballet Memphis, giusto?
“Esatto, crescendo nel mondo della danza sapevo di voler entrare nel mondo del lavoro il più presto possibile, così, come ti dicevo, a 19 anni sono entrata a Ballet Memphis come apprendista. Nelle compagnie di danza c’è questa grande possibilità di potere entrare in compagnia e vivere la prima esperienza lavorativa come apprendista, ricevendo un contratto che ti permette di lavorare per una stagione o per più stagioni teatrali con un contratto quasi full time, lavorando ad un livello professionale.
Dopo due anni a Memphis, ho capito, avendo fatto maggiormente repertorio classico, che avevo bisogno di qualcosa di più, di nuovi stimoli. Ho iniziato a sentire l’esigenza di ampliare il mio bagaglio artistico come ballerina. Così ho iniziato a fare audizioni per compagnie più neoclassiche e contemporanee entrando a fare parte del corpo di ballo di quello che oggi è il Saint Louis Dance Theatre, in quegli anni diretto da Brian Enos, ex ballerino dell’Hubbard Street Dance Chicago.
Dopo un anno passato là, era il Giugno del 2017, ho avuto problemi con il visto artistico: dopo sei anni che vivevo in America mi è giunta la notizia che non l’avrebbero rinnovato. Un problema che non ha riguardato solo me ma tantissimi altri artisti durante quell’anno, soprattutto il mio direttore il quale a due messi dall’inizio della stagione si è ritrovato senza una ballerina. Così come mi sono ritrovata io in Europa senza sapere da che parte farmi”.
Parliamo di come hai continuato la tua carriera da ballerina professionista in Europa…
“Continuare non è stato subito semplice, in America avevo avuto modo di toccare con mano il mondo lavorativo ma in Europa no, più che altro conoscevo il mondo accademico della danza. Così, mentre pensavo e cercavo, per mantenermi in forma ho passato un mese e mezzo in Portogallo, e, nel frattempo, ho trovato lavoro in una compagnia italiana a Pisa e così sono tornata qua. Purtroppo, devo dire che non mi sono trovata bene, ho realizzato in quell’anno quanto il mondo professionistico della danza in Italia non sia controllato; non mi sentivo rispettata in quanto ballerina professionista, sentimento che è nato anche grazie alle esperienze lavorative all’estero durante le quali ero stata accolta come tale.
Ho avuto però la fortuna di partecipare per due anni alla Biennale di Venezia, come ballerina professionista, con direzione artistica durante quegli anni di una grande coreografa canadese Marie Chouinard. Un’esperienza bellissima dove ho conosciuto tante persone, le quali mi hanno consigliato di andare via dall’Italia per lavorare, dicendomi che in altri luoghi avrei potuto lavorare come ballerina freelance o avrei avuto la possibilità di trovare contratti in teatri, non solo per produzioni singole ma per più stagioni teatrali, in quanto quasi nessuna compagnia, soprattutto nello stile e visione di danza che ho io, può offrirti un contratto stabile e rispettoso qua in Italia. L’esperienza di biennale, sia nel 2017 che nel 2018, è stata una delle cose più belle che ho fatto e visto fare in Italia.
Dopo la biennale del 2018 ho deciso di andare in Germania, a Berlino, dove sono stata freelance per due anni all’interno di progetti, teatri e compagnie. A Berlino ho avuto la possibilità e la voglia di sperimentare tanto e provare tanti stili, per ampliare il mio bagaglio culturale e fisico. Conoscere nuovi modi di ballare, di sentire il mio corpo muoversi è stato bellissimo e rigenerante. Grazie a questi due anni di duro lavoro e ricerca ho instaurato tante connessioni e ho avuto la fortuna di fare un guesting come freelance in un teatro del nord della Germania a Landestheater Flensburg.
A un certo punto è però arrivata la pandemia da covid e ha bloccato tutto, ma proprio a quel punto ho avuto un colpo di fortuna, probabilmente sorretto dal duro lavoro che avevo fatto nei due anni prima per farmi conoscere da più persone possibili. Fatto sta che la direttrice del teatro di Flensburg mi ha chiamata e mi ha detto che, viste anche le condizioni che c’erano per via della pandemia, ci teneva a darmi subito la possibilità di un contratto di due anni per Landestheter Detmold. In quel momento, senza neanche sapere dove fosse questa cittadina, ho accettato un contratto di due anni, un qualcosa di irripetibile, soprattutto in quel momento. Ora sono lì da 4 anni, in un luogo dove ho la possibilità di fare della mia passione il mio lavoro. Balliamo un repertorio classico e contemporaneo, Tanz Theatre, modern, Physical Theater, e in quanto ballerina del teatro, come nella maggior parte dei teatri tedeschi, sono anche parte come ballerina in operette, musical e opere.”
Parliamo di futuro, come ti vedi tra qualche anno?
“Inutile dirti che mi vedo continuare a ballare, quella è una cosa che farò finche potrò; nel mondo in cui voglio lavorare, come quello di Pina Baush, che può essere il Tanz Thetaer o il Physical Theater, puoi andare avanti finché il tuo corpo sente che ne ha la possibilità, insomma, vorrei restare sicuramente a contatto con il teatro e la danza.
Devo confessare però che mi piacerebbe anche avvicinarmi sempre di più alla coreografia. Ho iniziato a coreografare già dai tempi accademici ma a Ballet Memphis ho avuto la mia prima vera opportunità di coregrafare come young choreographer a livello professionistico. Al tempo era stata data la possibilità di portare una propria coreografia, e devo dire, che nonostante non mi sarei mai immaginata di avere la possibilità di fare un’esperienza così importante ad un’età così giovane, una volta presentata la coreografia ho auto un buonissimo riscontro e così ho dato vita a questa creazione “Hier Encore”,con musiche di Charles Aznavour e Max Richter, che oltre a me coinvolgeva altri tre ballerini della compagnia.
Coreografare è un mondo a cui mi ero già avvicinata durante gli studi alla scuola di Marsiglia, dove avevo studiato composizione e dove mi ero anche avvicinata al mondo dell’improvvisazione, realtà che mi piace particolarmente, probabilmente a causa del mio carattere abbastanza sfrontato, curioso e creativo; mi piace buttarmi, lasciarmi andare e l’improvvisazione è il modo più bello per farlo. L’improvvisazione per me è il mio luogo sicuro, dove mi rifugio nei momenti più belli e in quelli più brutti, dove inizia molte volte il mio processo creativo; improvvisare per me è perdersi e ritrovarsi, è davvero una forma di terapia personale.
Riprendendo invece il discorso sulla coreografia, in Europa, ho avuto modo di nuovo di toccare questa realtà partecipando a progetti da freelance, fino a quando poi ho avuto modo di ricominciare a creare le mie coreografie all’ interno di teatri grazie all’opportunità data dalla mia direttrice Katharina Torwesten all’interno del Landestheater Detmold. Ho creato due soli “Weightless- Heaviness” con la collaborazione della musica dal vivo di una giovane e straordinaria violinista Samira Spiegel, un altro solo “Hier Bin Ich!” con la collaborazione teatrale di un bravissimo attore Andrea Torwesten, un duo “Intwined” con il mio collega Levin Mischel e poi ho avuto anche la possibilità di coreografare su tutte le ballerine della mia compagnia una coreografia a me cara poiché dedicata ad una figura femminile molto importante nella mia vita che era mia nonna Rita, mancata due anni fa, che ho voluto chiamare appunto“Nonna”. ”
Cosa c’è di diverso tra il coreografare e il ballare?
“Coreografare significa creare, attingere alla propria immaginazione, non solamente imparare e studiare una coreografia. Non basta ripetere movimenti e idee dettate e create da altri, bisogna avere una propria visione creativa e fare tanta ricerca, sia personale che no. Coreografare per me vuol dire ascoltare sé stessi e gli altri e comprendere che cosa si va a trasmettere nel momento in cui si va a creare una coreografia.
Per me è una necessità farlo, anche se non si ha sempre l’energia; è decisamente un mondo che ti porta via tanto a livello mentale e fisico ma che ti ripaga anche tantissimo. Ovviamente non tutti i ballerini hanno questa necessità, ma a me piace molto, sapere di riuscire a creare connessioni sia con i ballerini con cui stai coreografando sia con le persone che ti stanno aiutando a farlo e con il pubblico che lo guarda, lo ascolta e si emoziona è quasi magia. Un continuo dialogo, come in una grande e complessa relazione. Per me è un momento di arricchimento troppo forte per pensare di rinunciarci.”
Tocchiamo un tasto dolente, questione Italia, ci ritorneresti mai a lavorare?
“Se la situazione rimane così onestamente no.
Io amo l’Italia, il nostro territorio, la Toscana, ma amo ancora di più essere una ballerina professionista ed essere riconosciuta come tale. In Italia ci sono delle realtà stupende, ma non ti ci guadagni davvero da vivere, e tengo a sottolineare che molte volte non è colpa loro, a differenza di altri paesi lo Stato qui è molto assente. L’Italia è piena di talenti, di teatri, di realtà che potrebbero offrire tanto, ma vengono valorizzate veramente poco per quanto realmente si potrebbe fare. Se le cose rimangono così so per certo che non tornerò, neanche in un futuro lontano. Devo potermi sentire libera di fare il mio lavoro sapendo di essere rispettata, non solo a livello monetario, ma anche come persona.
In questo momento il problema più grande per cui non posso stare in Italia è che non posso essere me stessa, essere me vuol dire poter svolgere la mia professione e passione di ballerina professionista, nello stile e modo di danza di cui faccio parte, e qui non posso esserlo né per come vorrei e né per come dovrebbe essere. L’Italia ti dà la possibilità di essere una ballerina professionista ma poi non supporta le realtà in cui esserlo, motivo per cui centinaia di ballerini italiani si trasferiscono all’estero raggiungendo anche livelli molto alti. Negli ultimi vent’anni all’incirca sono state chiuse più di quaranta compagnie di danza in Italia, come pensiamo di riuscire a tenere nel nostro paese i nostri talenti se continuiamo in questa direzione?”
Cosa possiamo fare per provare a cambiare questa situazione?
“L’unica cosa che mi verrebbe da dire, per provare ad aiutare questa situazione, e che possiamo e dovremmo fare per poter ribaltare questa realtà, o perlomeno provare a cambiarla a piccoli passi, è andare a teatro, o meglio, andare a sostenere i teatri, le compagnie, le persone fuori e dietro le quinte che ne fanno parte, che creano e portano al pubblico arte.
Purtroppo, fino a che lo Stato non si muoverà cambierà poco, devo però dire che anche da parte degli italiani nel corso degli anni c’è stato sempre meno interesse nei confronti di questo mondo. Posso quindi ripetere solamente di andare a teatro, sconfiggete quella paura di non essere all’altezza, di annoiarvi, di non capire, anche perché spesso non comprendere quello che si ha davanti è un momento di crescita più importante rispetto a trovarsi davanti qualcosa che si conosce perfettamente.
A teatro vedi una cosa unica tutte le volte in cui entri, ogni spettatore vede qualcosa che nessun altro potrà rivedere. Non c’è bisogno di spiegazioni, ognuno vive ciò che vede a modo suo. Il teatro, i palchi, sono luoghi in cui si creano connessioni, si parla attraverso il corpo, non solo attraverso la voce. Il mio scopo come ballerina è trasportare le persone in un altro mondo, lasciare al loro interno un monito, un ricordo, un’esperienza e fare sì, che, lungo la strada per tornare a casa, pensino a ciò che hanno visto, diano spazio ai loro pensieri, senza la fretta di capire, senza l’urgenza di comprendere. Spero che un giorno i teatri possano essere pieni nuovamente, che si capisca che ogni forma d’arte ha il diritto di essere rispettata e che i ballerini italiani non debbano per forza andare all’estero per potersi costruire una vita, un futuro e ricevere uno stipendio dignitoso.”