Per il quarto appuntamento di “Chianini nel mondo” voliamo oltre oceano fino a New York, dove vive Luca Lorenzini, nato a Sarteano. Comproprietario dell’azienda pubblicitaria SMALL, copywriter di professione da più di vent’anni, Luca ci ha risposto a un po’ di domande relative al suo percorso, al magico mondo della pubblicità e alla sua azienda; in cambio ci ha chiesto solo un piatto di pici, una proposta più che ragionevole!
Come tutti i chianini con cui abbiamo parlato ti chiedo di raccontare il tuo percorso di studi. Come ti sei approcciato al mondo in cui lavori oggi?
“Sono a nato a Sarteano e ho frequentato il liceo classico a Montepulciano, dove lentamente mi sono avvicinato alla parola scritta, al come usarla nel giusto modo. Una volta finito il liceo sono andato a studiare Scienze della Comunicazione a Siena e malgrado le materie fossero abbastanza diversificate fra di loro, comprendendo più campi, mi sono interessato e avvicinato a comunicazione pubblicitaria dove ho scoperto la parola copywriter (cioè colui che scrive le pubblicità). Durante la scrittura della mia tesi ho avuto la fortuna di iniziare uno stage a Roma presso un’azienda che all’epoca faceva comunicazione digitale (banner, posizionamento sui motori di ricerca).”
“Il primo collega che ho conosciuto era un ragazzo che si chiamava come me, Luca Pannese, e che stava studiando allo IED pubblicità. Luca un giorno è venuto da me chiedendomi che lavoro volessi fare, io prima di dire qualsiasi cosa ho messo le mani avanti, ma poi ho risposto “Il copywriter”. Luca così mi disse che gli serviva un copywriter per la tesi, in quanto lui era l’art director e io accettai senza pensarci un attimo. Così poi mi sono laureato e subito dopo ho iniziato a lavorare insieme a lui. Non ho più fatto esperienze accademiche; in questo mondo lavorativo a mio parere sui banchi di scuola non si può mai imparare quello che impari lavorando e confrontandoti con le persone che sono già pilastri di quella professione. Certo non intendo dire che gli studi non servano, dico solo che per alcuni lavori a un certo punto non servono più.”
Dove inizia la vostra carriera lavorativa e come arrivate ad aprire SMALL?
“Finito quello stage andammo a Milano, che era la città della pubblicità italiana. Siamo entrati nell’agenzia pubblicitaria che all’epoca si chiamava Young & Rubicam e lì abbiamo iniziato a farci le ossa lavorando per Barilla, Danone, Grana Padano… e abbiamo visto le nostre prime campagne pubblicitarie nascere, da lì sono passati circa 20 anni e ancora lavoriamo assieme. Alla Young & Rubicam abbiamo imparato molto ma non era il posto in cui volevamo passare il nostro futuro, volevamo fare la pubblicità seria e bella, che si distogliesse da quella noiosa e antipatica che tutti skippavano, poi avevamo ambizioni enormi da nutrire.
Così ci siamo spostati alla Saatchi & Saatchi Milano, dove abbiamo trovato il nostro terreno fertile e abbiamo finalmente iniziato a lavorare come piaceva a noi. Grazie a questo abbiamo dato vita a delle campagne che hanno anche vinto vari premi al Festival Cannes Lions (gli oscar della pubblicità per intenderci).
Dopo un po’ di tempo continuavamo a sentirci limitati, in Italia il mondo della pubblicità ha clienti che non hanno voglia di investire e hanno paura di buttarsi nel cambiamento; quindi abbiamo iniziato a guardarci intorno e l’azienda stessa ci ha mandati a New York, nel 2014 circa. Una bella sfida, avevamo una famiglia, ma nel 2015 abbiamo iniziato a lavorare nella filiale a New York. Qui le cose si muovono a una velocità stratosferica e così siamo passati a Publicis che ha una sede con circa 1000 persone; diciamo che lì non abbiamo trovato assolutamente cosa volevamo, anzi abbiamo capito cosa non volevamo.”
“Da qui è nata l’idea dell’agenzia, le abbiamo dato vita ed era così tanto differente dalle grandi agenzie nelle quali eravamo passati e con le quali ci eravamo confrontati che abbiamo deciso di chiamarla SMALL, piccola.
È stata una bella sfida aprire un’agenzia nella città più competitiva al mondo, soprattutto nel campo dell’advertising. Qui non ti puoi permettere di arrivare a fine mese senza stipendio e la paura c’era, ma eravamo convinti del progetto. Abbiamo iniziato e ce l’abbiamo fatta, prima partendo dall’Italia, da dove ci sono arrivati i primi lavori in quanto già conosciuti, come per Netflix Italia, poi grazie alla visibilità ottenuta abbiamo iniziato a lavorare da soli”
Come è stato aprire un’azienda e trovarsi subito a confrontarsi con una pandemia?
“Il Covid non ci ha toccato molto, perlomeno non tanto quanto ha danneggiato le grandi aziende che sono fisiche e spesso impostate su un modus operandi abbastanza antico. Sin dalla prima riunione, nel 2018, ci siamo detti che avremmo lavorato non fisicamente ma per quanto possibile online. Il nostro primo cliente era di Amsterdam e certamente non potevamo permetterci di andare là tutte le volte. Eravamo quindi “pandemic ready”, poi certo alcuni progetti iniziali sono stati annullati, più che altro per una questione di cosa comunicare e come farlo. Abbiamo anche avuto la fortuna verso Aprile, per la giornata della Terra, in un momento molto buio, di essere contattati da Timberland che si è affidata a noi facendo tutto a distanza, senza produzione. Per la voce narrante ho utilizzato quella di mia figlia montata su immagini di repertorio; quindi, diciamo che in un modo o nell’altro eravamo pronti e siamo riusciti a cavarcela.”
Questi ultimi anni, che anche a causa della pandemia sono stati anni di immensi cambiamenti, hanno influito sulla pubblicità?
“In realtà il cambiamento più grande a livello pubblicitario è avvenuto con i social media, quindi non negli ultimi anni ma da circa il 2008/2009. Con l’arrivo dei social le categorie in cui fare pubblicità sono aumentate in maniera esponenziale. Ma quello che diciamo sempre è che le regole con cui fare pubblicità in realtà non cambiano mai, cambia il modo in cui interagisci con le persone; di solito non cambia il messaggio ma la via che scegli per comunicarlo. Nel mondo della pubblicità è il pubblico che decide cosa vuole, non tu; se il pubblico cambia cambi anche tu, bisogna essere flessibili.”
Come nasce una pubblicità?
“Si parte da un cliente che può avere un prodotto qualsiasi, da un modello di scarpe a un servizio di delivery. Quello che noi facciamo di solito è interrogare il cliente e prima di muovere un dito vogliamo sapere tutto sul prodotto, sugli obiettivi e sulle possibilità (target, messaggio che deve ricevere l’audience, budget a disposizione sia per finanziarci che per comprare spazi a disposizione). Una volta che abbiamo il brief ci mettiamo a lavoro e dopo un tempo precedentemente stabilito ci incontriamo nuovamente e mostriamo le idee, se piacciono eseguiamo la campagna. L’idea poi è importante ma in realtà lo è anche come la concretizzi.”
Cosa differenzia SMALL dalle altre agenzie e quale è il vostro obiettivo?
“Rifacendomi al discorso precedente la prima cosa che mi viene da dirti è che è SMALL si basa su un sistema per cui lavoriamo molto con i freelance: ci arriva un progetto, capiamo cosa dobbiamo fare e contattiamo le persone che sappiamo potranno approcciarsi al meglio al progetto. Il vecchio metodo invece è “abbiamo 100 persone dentro già stipendiate usiamo quelle”, ma non sempre funziona.
La pubblicità è odiata dappertutto e da tutti, interrompe ciò che volevi fare e quello che stai facendo; per questo bisogna creare pubblicità belle, interessanti che comunichino qualcosa e che facciano parlare di sé. Se la mia pubblicità fa parlare sei tu che la cerchi, sei tu che prendi del tuo tempo per vederla e comprenderla. La pubblicità brutta continuerà a esistere ma il nostro obiettivo è sicuramente evitare di farla; per me la pubblicità è un’arte e può comunicare e dare emozioni, il nostro obiettivo è fare sì che succeda.”
Quale è il momento in cui hai detto: posso farlo, questo è il mio lavoro?
“Nel 2012 siamo arrivati al festival di Cannes che non avevamo vinto nessun premio e ci candidammo con la prima pubblicità nata dalla collaborazione con coordown. Una domenica ero a cena a Finale Ligure con mia moglie e mi squilla il telefono, era il mio capo, all’epoca parlavo veramente male l’inglese ma prendo il telefono e mi sento dire “Luca hai appena vinto un leone d’oro a Cannes” , alla fine della serata avevo vinto 4 leoni d’oro e il giorno dopo c’era la premiazione. Io arrivai molto velocemente, il mio collega partì da Rimini e nel frattempo partì da Genova una macchina con due ragazzi con la sindrome di down.
Quando durante la serata delle premiazioni ci chiamarono a ritirare il primo premio non ci alzammo, ma al posto nostro ritirano il premio i due ragazzi. La campagna, nominata “Integration day“, era rivolta all’integrazione di coloro che hanno questa sindrome nella società, per questo decidemmo di fare la stessa cosa che avevamo fatto nella pubblicità con il ritiro del premio. Tutto il pubblico si alzò in piedi ad applaudire, cosa che non succede mai e devo essere sincero ho riso tanto quello sera. Alla fine di tutto avevamo vinto 7 leoni d’oro partendo da zero, ora ne abbiamo vinti 34, ma vincere quei premi quella sera fu come coronare un sogno. La prima volta che vinci ti cambia la vita, ti fa pensare “Allora lo posso fare”.
“I sogni bisogna nutrirli, non basta desiderare. Si lavora tanto, ci si impegna tanto, devi trovare le persone giuste, io ho trovato Luca e quindi ci sono riuscito. I sogni si realizzano, ma bisogna farsi il culo, che non significa rinunciare al proprio benessere lavorando la notte, sotto stipendiati, rinunciando alle altre proprie necessità, ma significa lavorare tanto per comprendere i propri punti di forza e partire da lì. Ho fatto tante cose con passione, ma ho spesso fallito, poi ho trovato questo e ho capito che mi riusciva, a quel punto mi sono rimboccato le maniche e sono riuscito a farla diventare un lavoro.”