Carlo Pasquini è il demiurgo teatrale più autorevole del nostro territorio. Nella complessità dei dati che compongono le sue Opere c’è una coerenza sottaciuta, un mistico divagare che traspare incongruenza e contraddizione, passività e melanconia. Spesso i suoi spettacoli crescono attraverso la contraddizione, il dubbio, il declivio nei piani scoscesi della liscitudine retorica aperta sul baratro del non sense. I suoi spettacoli nascono e crescono per sommarsi di cuciture forzate, spasmi dell’eloquenza teatrale, legature tra opposti incongruenti. Tutto questo serve a comporre. Serve a dipingere il suo spettacolo, come unità organica e non semplicemente addizione di elementi. Con gli occhi di pittore, Carlo Pasquini associa toni completamente diversi a fini espressivi, come i colori complementari che, per sintesi additiva, forniscono risultati stupefacenti, à la manière di certi ardimentosi prodotti di Gauguin e dei migliori Nabis parigini. I risultati finali sono sempre assolutamente perfetti. Equilibrati. Compiuti.
Con la produzione della Fondazione del Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano, Carlo Pasquini ha portato in scena “La Ragazza sul Divano”, di Jon Fosse, drammaturgo norvegese che dagli anni ’90, grazie alle traduzioni di Graziella Perin, ha trovato ampio interesse negli ambiti del teatro italiano. Tanto che nel 2004 Walter Malosti ha ottenuto il Premio Ubu come migliore novità – drammaturgia straniera con la messinscena di Inverno, un crudo e concentrato atto unico che ha definito un’accresciuta attenzione, anche da parte del pubblico, per l’autore norvegese.
“La Ragazza sul Divano” è invece un testo più complesso, con nove personaggi che scorrono sul piano dimensionale della scena. Due vicende, sovrapposte, che si svolgono tramite un’ingegnosa livellatura di battute. La prima vicenda è un presente, in cui la matura pittrice, interpretata da Francesca Fenati, interpone il lavoro ad un nuovo quadro, rappresentante una giovane ragazza, alle visite di un compagno, interpretato da Francesco Storelli e dalla sorella maggiore (Giovanna Vivarelli). La seconda, sovrapposta, è il passato, il ricordo, la stessa pittrice preadolescente (Teresa Consoli), ingenua e sola, deambulante tra i rapporti incostanti con la disinvolta e sessualmente procace sorella maggiore (Francesca Paolucci) e con la madre (Giulia Rossi) che, costretta all’attesa del marito marinaio (Calogero Dimino) che manca da casa da due anni, abbandonata a gestire da sola le due difficili figlie, cede alle lusinghe del cognato (Paolo Pinna), il quale diventa suo amante.
Elemento scostante, erratico e violentemente lacerante la tessitura opaca della spenta personalità della Donna Pittrice, è l’apparizione del padre, da vecchio (forse ectoplasmatico), interpretato da Armando Sciarrabasi; un fantasma, un’adulterazione del rimosso, la presenza-assenza della causa dell’infausto peregrinare della Donna, alla ricerca di sé. Il Padre parla per refrain, le sue parole sembrano formule per un’assoluzione, la redenzione del ricordo e del ricordante, come un percorso rituale del dionisismo tragico, all’alba del teatro occidentale.
La monolitica scenografia, che pone due fondi, il primo dei quali con un imponente foro centrale a definire le morfologie di una cornice, è sfruttata ora come controscena, ora come finestra, dotata di importantissimi risvolti coloristici, per quanto concerne l’assolutamente efficace uso delle luci. Il divano panna, l’atelier ridottissimo, in un angolo di proscenio, disordinato e arrabattato, essenziale, riempiono la scena con elegante e rigorosa pacatezza, che sempre di più si confonde con noia e monotonia nel corso del dramma. La quadratura simmetrica della scenografia guida lo spettatore secondo i toni cromatici che magistralmente vengono associati alle scene; blu, panna, grigio, blu, fucsia, nero. Una finestra/cornice definente tensione, dal cui foro si sprigionano sentori di quiete e d’inquietudine.
Lo spettacolo segue una profonda e vile analisi della coltivazione del talento e della conseguente personalità – o, se si preferisce la coltivazione della personalità, e del conseguente talento – la stretta connessione tra riuscita espressiva e sofferenza, l’intramontabile scontro ecdotico del testo figurativo, e quindi, banalmente, la critica d’arte, tra il saper rappresentare (qui propriamente il saper dipingere) e il rasente saper vedere. Un talento del saper rappresentare che è, per di più, inversamente proporzionale all’età che avanza, volubilmente arrangiato nello scorrere dei giorni. Il saper fare e il suo sogno si scontrano nolente contro il nuvolo della brutalità della piattezza quotidiana, contro il muro della fattività del tempo che scorre, il suo veloce (ma lento) incedere che annulla vezzi e velleità. I due tronchi narrativi si definiscono quindi in chi ricorda (e quindi chi osserva) e chi è ricordato, osservato, rigettato nell’inconcluso quadro al quale la Donna sta lavorando.
Il dato più riuscito dello spettacolo è l’algoritmica miscela di corpi e luce, abilmente gestita. I corpi rilucono nello spazio-luce. Diventano luce. Attraversano il fascio dei faretti laterali riflettono loro stessi nel pannello retrostante, come a formare un’aura, una proiezione pluridimensionale dell’essere; supera altezza, larghezza e profondità e marca la grandezza fisica del ricordo, del rimpianto, del tempo scaduto.
Caratteristica definitiva è quella della volontaria – e sacrosanta – lentezza, che cela un ritmo sommesso. Come un piede che sente la necessità di battere ritmicamente nel silenzio, senza musica, durante le attese. Un ritmo corporeo, interno, silenzioso. Quell’attesa che riempie l’aria, durante le pause tra le battute, dove anche gli oggetti di scena, i mobili, le paratie, le quinte nere, non sono mai silenzio, ma diventano disillusione, insofferenza, pesantezza dell’aria, dei colori, della luce, pesantezza dei corpi che decedono ogni secondo di più. Corpi che danno carica erotica senza mostrarsi, corpi che detengono potenziali pianti, lì lì per esplodere, che non esplodono, parole infinitesimali a riempire i silenzi, le pause e il vuoto che non è mai vuoto. Questo – forse solo questo – è il teatro.