“David Bowie is”: Londra, 10 maggio 2013
Fa freddo davanti al portone maestoso del Victoria & Albert Museum, sono solo le 9.00 del mattino, ma una fila interminabile di persone è già in coda nella speranza di accaparrarsi uno dei pochi biglietti emessi giornalmente per la mostra dell’anno. Anzi, la mostra inglese per eccellenza, visto il record di prevendite. Si parla di un sold out per ben 50 mila biglietti prenotati.
L’emozione inizia a farsi sentire già vedendo sventolare sopra la testa uno striscione con su scritto: “David Bowie is…here”, “David Bowie is watching you”. La prima sensazione è quella di girarti e guardarti intorno per vedere se tra gli uomini un po’ attempati che ci sono in giro, si nasconde Lui, magari travestito con cappotto lungo e cappello in testa per non farsi riconoscere.
Lo stile inglese si riconosce subito. Cuffie e guida audio con sistema wi-fi ti guidano in un percorso di interviste, performance, pensieri, ma soprattutto canzoni che raccontano la carriera artistica del Duca Bianco. Una sensazione di stordimento, quasi da sindrome di Stendhal, poni lo sguardo verso la copertina dell’album Ziggy Stardust e in un lampo il tuo udito è invaso dalle note di Starman: “There’s a starman waiting in the sky, I’d like to come and meet us, but he thinks he’d blow our mind”. Sotto la copertina del disco, in mezzo a spartiti musicali, l’inchiostro blu di una biro imprime le parole di uno dei singoli più famosi della storia della musica; semplicemente lì su un foglio di quaderno a quadretti, con una calligrafia incerta e qualche cancellatura, le note su cui negli anni ’70 mio babbo e mia mamma hanno ballato e che io oggi ascolto.
A due millimetri da me un pezzo (di carta) di rock, a dividerci solo un pannello di plexiglass e più di 30 anni. Tutti i sensi sembrano essere coinvolti, anche la vista ha il suo appagamento. Sono più di 60 gli abiti di scena di Bowie. Trasformista per eccellenza, audace e trasgressivo all’ennesima potenza. Un tripudio di colori, paillettes, spalline, tacchi alti, camicie a punta, cappelli, trucchi e parrucchi. Sembrano prendere vita dalle mani degli stilisti del calibro di Natasha Korniloff, Alexander McQueen, Freddie Burretti e Giorgio Armani, che li hanno resi semplicemente memorabili. Non è un caso che il principale sponsor della mostra sia Gucci. Mi viene subito in mente una battuta di Amanda Lear, amante e musa ispiratrice, non solo di Dalì a quanto pare, che riferendosi ai rapporti intrattenuti con Bowie disse: “David è l’unico con cui sono andata a letto ad essere più truccato di me”. E mi scappa un sorriso malizioso.
Il viaggio ipnotico, al limite tra sogno e realtà prosegue unitamente alle fasi di vita di questo eclettico, quanto psichedelico artista, per approdare in una stanza di circa 50 mq e pareti alte più di 7 metri coperte interamente di maxi schermi uno sopra l’altro a formarne uno solo e improvvisamente ti ritrovi immerso in uno dei più grandi concerti tenuti dal Duca Bianco, e lui che canta “Heroes” solo per te, con quella voce tanto potente quanto suadente.
Ti perdi nel vortice di emozioni che sprigiona ogni singola nota illudendoti per un attimo di essere in mezzo a quei ragazzi un po’ hippies un po’ glam col naso all’insù a guardare quell’androgino “thin white duke”.
Sono più di due ore che sei lì dentro, ma non te ne accorgi, non c’è tempo e non c’è spazio, sembra di essere in un labirinto ed è proprio questo pensiero ad essere esaudito. In un ambiente un po’ più piccolo degli altri una sfera di cristallo “contenitrice di sogni” e uno scettro ti riportano alla mente ricordi adolescenziali, quando per la prima volta nel 1986 trasmettevano al cinema “Labyrinth” un film fantastico, prodotto dal regista dei Muppets, dove tra pupazzi e goblin, un Bowie con parrucca improbabile e trucco alla star trek balla con la giovane Sarah sulla melodia di “As the world falls down”.
Mentre lascio indietro le ultime stanze e gli ultimi abiti di scena, la Marylin multicolore di Warhol sembra strizzarti l’occhio al tuo passaggio, quasi a volerti dire che la mostra è giunta alla fine, ma che certi miti immortalati in foto, copertine e quadri, rimarranno eterni, unitamente alle loro opere, la loro musica, le loro parole.
Ho apprezzato tutto; sarà stato l’allestimento, sarà stata l’aria rock di Londra…o forse, semplicemente, Is David Bowie.
(articolo a cura di Pamela Fatighenti)