Non parlare di quanto accaduto a Genova, sarebbe una grave mancanza. Ci sono catastrofi che non possono essere ignorate dall’informazione locale, ma che anzi devono servire da monito, che devono ricordare che l’Italia è un territorio molto complesso, ma anche fragile, da un punto di vista idrogeologico. E come tale andrebbe trattato, prendendo precauzioni e non aspettando che arrivino le piene, i morti, la distruzione. Abbiamo parlato di Parma, adesso ci sembra giusto coinvolgere in prima persona i genovesi che hanno assistito a una seconda alluvione nel giro di tre anni.
Ecco il contributo di una nostra lettrice, Laura Liliana Allori, che a nostro avviso, ha scritto una sacrosanta (e sentita) verità su quanto accaduto a Genova.
Venerdì 3 ottobre, sudando e ansimando, salgo lungo via Fereggiano per recarmi in Largo Merlo. Mia madre mi accompagna e ha voluto fare il lato “al sole” per vedere le condizioni del torrente, tristemente noto per i fatti del 4/11/2011. Io brontolando (sono vestita di blu e ci saranno 27°) obbedisco e mi fermo ad un certo punto, notando che i lavori di ristrutturazione dell’argine sono finanziati da “Nostra Signora del Rifugio …”. Come? Le suore? Ebbene sì, quei pochi lavori fatti sono stati finanziati non dal Comune, ma da un ordine di suore che ha un piccolo asilo nido a pagamento e un’enorme mensa per i poveri, dove danno da mangiare due volte il giorno.
Nel commentare il tutto, tra un arbusto di tre metri e l’altro, ci fermiamo a vedere le papere o anatre, o altri animali, sguazzare in pochi centimetri d’acqua e tanto, troppo verde misto a rifiuti, non molti, a dire il vero, ma abbastanza da diventare un tappo in caso di pioggia. Tornando indietro, questa volta all’ombra, notiamo che in un punto, dove nessuna delle due ricordava cosa ci fosse, c’è una piccola edicola con una Madonna e il ricordo delle sei vittime dell’alluvione maledetta. Mi è passato il caldo: mi si è gelato il sangue ripensando che la più anziana la conoscevo; alle lacrime versate al funerale della mamma mia coetanea che si è sacrificata per salvare il figlio; a quelle due bambine e la loro madre, rammento che una maestra di mia figlia abita nello stabile dove viveva quella famiglia di cui era rimasto solo il padre, il marito e mi raccontò le urla di dolore di quell’uomo, quel giorno e quelli a seguire.
Poi ripenso a quante cose non ci sono più. Io sono stata chiusa in casa per quasi due anni e, pochi mesi fa, sono tornata a uscire in una Genova che non riconosco. Da tre anni non ci sono più i sottopassi memorabili, con storici negozi, il megastore di via XX; così chiamiamo “amichevolmente” la nostra arteria più nota, il “centro” della città che porta alla piazza del Teatro Carlo Felice, del Palazzo Ducale, dei Musei dell’Accademia: piazza De Ferrari o “Deffe” da sempre. Insomma, avevo appena fatto in tempo a ritrovare i pezzi della città, che mi ero persa per la mia malattia che, ecco, una nuova tragedia me la riporta via e non c’è più via Venti e con lei le vie limitrofe, i negozi, il Museo di Storia Naturale. Non c’è più niente. Così, come al Borgo Incrociati, sempre a bagno, (nel 1992, 1993, 2010, 2011, 2014), sempre a pezzi, sempre di nuovo in piedi.
Al mattino di giovedì 9 ottobre resto senza luce in casa per una ventina di minuti, mi appello alla batteria del cellulare e cerco notizie sul sito dell’Arpal per capire se è il caso di andare a recuperare mia figlia a scuola in anticipo: allerta 2. Mando anche un sms con il link a mio marito . Torna la luce, accendo Primocanale, la tv locale più osannata dell’ultima settimana perché sempre in prima linea (a volte la si chiama anche tele tragedia…) e sento che non c’è da preoccuparsi, siamo ben lontani dal 2011. Nemmeno dodici ore dopo c’era un morto e la mia città era solo fango, macerie e rabbia. Ma la tv in prima linea sì, con i suoi insulti, celati dal microfono del cronista e le lamentele dalla gente.
La notte successiva sembrava di essere in guerra, tra tuoni, acqua e grandine non si vedeva ad un metro dal balcone: la tv (in prima linea!), in streaming sul cellulare perché senza luce, trasmetteva repliche.
Chi è il responsabile? Il sindaco? Lui se ne lava le mani (non ne ha bisogno, non se l’è sporcate di fango), sbologniamo la colpa all’Arpal, agli immigrati, al destino, al Karma a Dio, ma mai a chi si è intascato i soldi (50 milioni di euro solo dalla CEI nel 2011, 100 milioni ora, più un conto corrente dedicato, raccolte fondi, vendita di magliette “non c’è fango che tenga i genovesi” ancora addosso ai ragazzi, e anche a qualche ragazzone cresciuto …), dove sono? Nei giorni a venire, da quel maledetto giovedì notte, escono fuori mille ipotesi, ma intanto un uomo è morto (eh beh, non son sei, ho anche sentito e letto!), gente che ha appena ricevuto 500, 200 euro di risarcimento di tre anni fa (dalla Croce Rossa) dopo aver denunciato chi 50.000, chi anche di più. Sembra una beffa, è una beffa. Ma c’è la morte, di quell’uomo di cui si fa pure fatica a trovarne il nome, c’è la morte delle aziende, dei negozi: la morte nel cuore di ogni genovese danneggiato e non, angelo del fango o no eccetto dei responsabili che se ne stanno a teatro a mandarsi Tweet tra loro.
Genova in tre giorni è tornata quasi in piedi grazie a tanti nomi di persone di buona volontà, ai pompieri, ai dipendenti dell’Amiu che han fatto doppi turni, agli autisti degli autobus in giro con l’allerta 2 ma col coraggio e la consapevolezza di essere l’unico mezzo per molti.
Lo so sembra che voglio fare apologia cristiana, io da vecchia catto-comunista della prima generazione, quella che da’ a Cesare e a Dio, mi rendo conto che da Cesare cui ho pagato molto, ho ricevuto ben poco. Le cifre parlano chiaro, i fatti parlano chiaro (“non c’è fango che tenga” è partito come progetto dalla Parrocchia di Marassi, quella molto vicina a via Fereggiano!), i cartelli parlano chiaro: sono le suore che pagano.
Cartelli, messaggi, display, sirene, allarmi, televisioni sempre in prima linea: tutto il giorno dopo. Posso ancora riconoscere la mia Genova, la Superba: dalla faccia della sua gente, dei commercianti, dei baristi, degli “spazzini”, dei genoani e sampdoriani, e che da un po’ ha preso il colore del centro America, del nord e del centro più nero dell’Africa, dal volto dei ragazzi con la pala in mano: Matteo, Andrea, Filippo, Lorenzo. Angelica, Anna, Selene, Aurora, Stefano….. e tutti gli altri. Tanti colori tra il marrone del fango. I colori della speranza.
Non meno pungente è la testimonianza di Daniele, sempre di Genova, a cui ho chiesto un commento su quanto fatto dall’amministrazione e a cui ho chiesto di descrivere la sua zona:
In tutti questi anni, dall’alluvione del 1970, nessuno ha mai fatto niente per porre rimedi al dissesto idrogeologico, al fatto che il Fereggiano e il Bisagno, corrono praticamente sotto al centro abitato e non hanno un alveo atto a contenerli.
Per come la vedo io, su quanto accaduto la sera dell’alluvione, le cose stanno così: posto che il Sindaco sia andato a teatro per adempire a “obblighi istituzionali” come ha asserito poi e che alle 20,30 quando vi si è recato, era ancora tutto tranquillo… Ciò che non è ammissibile è che verso le 22,30, quando si stava scatenando l’inferno con la pioggia torrenziale (bomba d’acqua), nessuno si sia preso la briga di: primo, avvisare e reperire il sindaco; secondo, quelli dell’Arpal avrebbero dovuto rendersi conto che non sarebbe finita tanto presto, e, diramando subito lo stato di allerta, a stretto contatto con sindaco e protezione civile, avrebbero potuto sicuramente coordinare un piano di emergenza, disponendo l’invio sul territorio dei vigili del fuoco e dei mezzi della Protezione Civile. Contrariamente a tutto ciò, c’è stata un’immobilità sconvolgente e il sindaco, invece di prendere le redini della situazione in mano, se l’è tranquillamente presa con comodo. Sono quasi certo che il Comune non disponga nemmeno di un’unità di crisi da approntare in queste, ahimè, reiterate situazioni. E così siamo arrivati alla seconda alluvione in tre anni, a causa di uno scolmatore fermo con i lavori e a un gioco dello scaricabarile da parte delle varie autorità competenti. Grazie a tutto questo, ci sono persone che hanno perso la casa, prima ancora ci sono quelle che hanno perso la vita. E ci sono centinaia e centinaia di attività commerciali che non si rialzeranno più, sommerse da debiti, in attesa ancora di risarcimenti danni mai avuti, e pensa dove siamo arrivati: alcuni di coloro che hanno ricevuto un misero risarcimento danni (meno di un decimo di ciò che hanno perso), ebbene a queste persone, lo Stato ha considerato “reddito” questo risarcimento, e di conseguenza, sono stati tassati su questi soldi avuti. Questo, grosso modo, è il quadro della situazione.
La mia zona è stretta a tutti gli effetti tra il Fereggiano e il Bisagno, è la zona di Marassi, e molte attività commerciali nei fondi, ma non solo loro, sono state letteralmente distrutte dalla furia dell’acqua fuoriuscita dal Fereggiano. In questa seconda alluvione, molti più danni sono stati subiti da strade tipo Corso Torino e vie adiacenti, Piazza Colombo, alle spalle della centralissima via XX Settembre, la stessa via XX Settembre, viale Brigate Partigiane, molti negozi di Piazza della Vittoria e tutte le attività commerciali di Borgo Incrociati, che si trovano a 20 metri dal letto del Bisagno, ma ahimè, quasi sotto il suo livello. Un plauso assoluto va agli angeli del fango, senza di loro, sarebbe stato un dramma senza fine.
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