Festival Orizzonti 2015: un tuffo in “Mediterranea”
#ORIZZONTI15
Questo che state leggendo è il risultato del nostro impegno, della nostra passione e del nostro coinvolgimento: assieme ani nostri contributi troverete foto, video e approfondimenti realizzati dagli altri media partner e dallo staff organizzatore del Festival Orizzonti. La narrazione seguirà una linea tutta nostra, fatta di incroci e di sinergie, di impressioni e di emozioni, trascurando volutamente la sequenza temporale e l’ordine degli eventi. Buona lettura!
Mediterranea a Chiusi: dove si incontrano le culture
di Alessio Banini
Raccontare una storia non è un impegno che va preso alla leggera.
Raccontare una storia inventata è facile, ma raccontare una storia vera è dannatamente difficile. E quando prendiamo l’impegno di raccontare una storia, noi di Valdichiana Media dobbiamo portarlo a termine.
Quella del Festival Orizzonti è una storia di cultura e di arte, con tanti eventi che spaziano dal teatro alla danza, dall’opera alla mostra, concentrati in dieci giorni d’estate. Ma non era questa la storia che mi interessava raccontare. Quando ho cominciato ad aggirarmi per le vie di Chiusi, durante il primo weekend del festival intitolato “MediTerranea”, avevo un altro obiettivo in mente. Volevo concentrarmi sulle storie delle persone che ruotavano attorno al festival: gli organizzatori, i turisti, i cronisti, gli artisti, i commercianti, gli appassionati e gli oppositori. Non gli eventi, ma ciò che li metteva in relazione: non la terraferma, ma il Mediterraneo. Un obiettivo ambizioso, raccontare la vita che ruota attorno al festival, senza avere la pretesa di comprenderla pienamente.
Erano queste le domande che mi ronzavano in testa, quando progettavamo i nostri racconti del Festival Orizzonti: il festival porta la cultura a Chiusi, ma come cambia Chiusi nei confronti di questa cultura? Come reagisce nei confronti degli artisti, come si confronta con mondi artistici così distanti da una cittadina della provincia senese di neppure diecimila abitanti?
Che il festival sia coinvolgente anche nei confronti di coloro che vivono e lavorano nel centro cittadino di Chiusi, è evidente dalle parole di Cinzia, che dal suo negozio di frutta e verdura osserva le compagnie teatrali e gli stagisti del festival che passano lungo le vie.
“Gli eventi culturali creano comunità. Se ne parla tra noi, se ne discute. Il teatro e l’opera possono piacere o meno, i gusti son gusti. Ma ti arricchiscono comunque, perché la cultura ti lascia sempre qualcosa.”
E poco importa che i risultati commerciali dell’attività, durante i giorni del festival, non siano esaltanti:
“Perché non bisogna guardare solo al denaro. Anche alle conoscenze che fai, alla capacità di promozione di un evento del genere. La gente che viene a Chiusi in questi giorni poi ritorna. Fai conoscere la città e la fai rendere viva.”
Il rapporto umano e la relazione sociale sono fondamentali, per la crescita culturale. E di rapporti umani vive tutto il festival. Tra un evento e un altro si incontrano Anna e Arianna che corrono da una parte all’altra, i redattori di Teatro & Critica che preparano il magazine, i ragazzi di Radio Trasimeno che allestiscono il Dj set serale. Il fermento culturale del festival è anche il fermento di chi lo racconta e di chi lo organizza. Gli eventi sono la terra in cui si sbarca, ma la rete attorno a essi è il mare, quel Mediterraneo che è il titolo di quest’edizione e in cui si annida lo spirito vero e autentico dell’aspirazione culturale di quest’angolo di mondo.
Perché la cultura è anche in queste relazioni. Nella rabbia di Marcello che bacchetta a suo modo la presidentessa della Fondazione Orizzonti per aver tardato l’apertura dell’Open Space Art, in cui sono esposte le opere pittoriche degli artisti locali.
“Noi artisti non vogliamo essere il fanalino di coda – si lamenta – vogliamo essere il faro.” Marcello non vorrebbe limitarsi a esporre le sue opere, ma vorrebbe far crescere il pubblico. Farlo diventare critico, favorire la gestione economica della cultura. Non è l’arte che deve diventare popolare, ma il cittadino che deve diventare critico.
“Qui in inverno la gente non sa cosa fare. Una visita a una mostra sarebbe già qualcosa. Ci vogliono spazi comuni per i pittori, sia per presentarsi al pubblico sia per fare sistema assieme agli altri.”
Prima di fare la pace con Silva, che viene ad aprire la mostra, Marcello trova il tempo di citare Churchill e la seconda guerra mondiale. “Perchè dovremmo tagliare fondi alla cultura per finanziare la guerra? E allora per cosa combattiamo?”
Anche Churchill, probabilmente, sarebbe stato felice di vedere quegli anziani signori in Piazza del Duomo, che non erano minimamente interessati alla prima della Cavalleria Rusticana e stavano nei giardini accanto. Ma che, quando un passante ha alzato la voce, gli hanno intimato di fare silenzio per non disturbare.
Sarebbe fiero anche di Simona e Rina, che si affaccendano al chiosco dei giardini mentre cittadini e visitatori vivono il festival.
“Meno male che c’è il festival che ha dato vita a questo paese – dicono – Un po’ di facce nuove si vedono, meno male che fanno iniziative belle che portano persone.”
E il dispiacere di non poter godere neppure di un evento, perché c’è necessità di lavorare e tenere aperta l’attività commerciale, è mitigato dalla possibilità di ascoltare da vicino tutte le prove dalla Piazza del Duomo e dal Teatro Mascagni.
Organizzare un festival come questo significa investire in cultura. E quando investi in cultura, trovi anche degli oppositori. Come il signore all’uscita del Teatro Mascagni dopo lo spettacolo di Pippo Delbono:
“Ma io, se devo comprare qualcosa, mica la compro a Chiusi! Altrimenti aumento l’indotto, sarebbe come votare questa gente! Piuttosto i soldi li porto alla Pieve, e la roba la compro lì!”
Mentre l’oppositore riparte per Città della Pieve, però, un gruppetto di bambine in Piazza XX Settembre improvvisa dei balletti con la radiolina davanti alla fontana, in attesa del Dj set serale. Tutto questo, mentre nel Chiostro di San Francesco si svolge lo spettacolo di danza della compagnia Adriana Borriello. L’evento, e la vita che ruota attorno. La terraferma, e il mare di relazioni che la rende viva.
Ma questo non può essere sufficiente, per raccontare il festival. Non possono bastare le voci dalla piazza, le opinioni dei commercianti, le impressioni degli spettatori dopo gli spettacoli o la stanchezza mattutina degli organizzatori. Il senso profondo di questa Mediterranea che unisce paesi, storie, culture, sogni e destini, tutti diversi e tutti uguali, non può prescindere dal rapporto tra le persone.
Cultura non è solo negli spettacoli di qualità del festival. Cultura è anche nella rete di relazioni tra le speranze di Cinzia, la rabbia di Marcello, i sorrisi di Simona e Rina, le emozioni delle decine di persone che il festival lo vivono e lo attraversano, fisicamente e spiritualmente, come se fosse un Mar Mediterraneo: alla ricerca dell’altro, del futuro, dell’arte, se non addirittura di un senso. E il mio contributo a questo mare non può che essere il racconto, per dare dignità alle loro emozioni e alle loro storie.
Pur sapendo di non essere all’altezza del festival, in certi momenti. Anche negli spettacoli di danza contemporanea che non posso comprendere, anche nelle citazioni teatrali che non posso cogliere, percepisco un senso più profondo. Sto attraversando la mia Mediterranea, e non sempre la terraferma è conosciuta: a volte è aspra, ignota, difficile. L’incontro con l’altro non è sempre facile: ma è proprio in quell’incontro, la cultura. Nel mare, non nella terraferma.
E allora anche a Chiusi puoi cercare un senso all’arte, alla vita, all’incontro tra le culture. E allora capisci che sì, Chiusi è una città piccola, famosa per il suo passato etrusco e per la sua stazione ferroviaria. Ma è un crocevia, ed è nei crocevia che si fa cultura. Come nel Mediterraneo, un mare che per secoli è stato un crocevia, dove si incontravano i mercanti con i preti, i guerrieri con i pescatori, i criminali con i poeti. Il luogo in cui si incontrano le culture, in cui entrano in relazione tra di loro, prima di affrontare una terraferma ignota, che sia un incontro a passi di danza o a colpi di hashtag.
E allora sì, eccolo qua, il mio racconto: benvenuti a Mediterranea, crocevia di culture.
Romanzo Mediterraneo: una presa diretta di #Orizzonti15
di Tommaso Ghezzi
Non potevo non sfruttare l’opportunità di girovagare per il Festival Orizzonti di Chiusi, anche quest’anno. L’unica realtà in cui l’attenzione, il perno retorico del programma, è veramente incentrata sulla prosa, sulle qualità del racconto, sui registri e i fraseggi della recitazione piana, attiva, contemporanea. Il concept di quest’anno è il Mediterraneo e le sue declinazioni, le sue infinite aperture di ventaglio, il suo serbatoio millenario di storie e termini emotivi. Ho inteso la giornata del 4 Agosto come un’unica, grandiosa, rappresentazione.
Ore 14:30
È il 4 agosto. Pomeriggio. La mia macchina è immobile in una piazzola dell’autostrada. Io sono fermo alla colonna del SOS, ho già chiamato i soccorsi. Sono in attesa. Scoprirò più tardi che la cinghia di distribuzione dell’albero motore che fino al chilometro 394 dell’A1, in direzione Roma, faceva parte del plesso unitario e coerente del sistema-automobile, è scomparsa, annullatasi in un Seppuku estivo, come Mishima, per mancata tolleranza della canicola. Vabbè.
Riesco fortuitamente a trovare aiuto in autostrada. Persone che mi portano a Chiusi. Al Festival Orizzonti. Recupero un minimo di fiducia nell’umanità.
Ore 16:10
Quando entro nel foyer del Teatro Mascagni, dopo la disavventura estraniante che ho vissuto, sono passate le quattro. È il quattro agosto duemilaquindici. E sono in ritardo per recuperare i miei accrediti dalla responsabile dell’ufficio stampa.
Nella sala stanno provando “Therese et Isabelle”, lo spettacolo della compagnia del Teatro di Dioniso, in programma per la sera successiva. Gli attori camminano in autonoma e distaccata indifferenza gli uni verso gli altri, e costruiscono, ormai per inconscio derivato dalle alacri ore vissute sullo stesso piano scenico a provare gli spettacoli, un’armonia implicita. Una pura coscienza dell’Altro, un’immedesimazione etero diretta. Camminano disordinatamente, in apparenza, a guardarli meglio tutto gira secondo un ordito preciso, intimo e viscerale. In questi momenti, gli attori, accarezzano l’imo del daimon scenico, l’estro teatrale, lo spirito che coglie i canali del corpo umano e li rende lirici. Questa è la poiesi del racconto, quel limite fisico, tangibile, in cui si costruiscono le storie. È come assistere ad un’aurora boreale, come assistere ad un parto di un animale raro. Un feto di panda che viene alla luce tra i bambù. Poi ci penso meglio, e mi accorgo che è solo teatro.
Mentre aspetto Anna dell’ufficio stampa, scorgo dei libri messi in vendita a costi ridottissimi. Mi prendo una biografia di Flaiano, scritta da Giovanni Russo, e i diari di Vittorio de Sica. Mentre leggo mi passano accanto decine di ragazzi, volontari, stagisti, dipendenti della Fondazione Orizzonti, tutti indaffarati alla gestione della vendita dei biglietti, dei trasporti delle casse, della logistica degli spettacoli. Entra anche una delle costumiste del festival. Ha dei lunghi capelli bianchi, una veste di lino e porta con sé sacchi di stoffa.
È come una Menade solare, una visione. La seguo uscire verso via Porsenna. L’aria è immobile come l’immobilità che consegue uno sforzo. Quella fermezza psichica, raggiungibile solo dopo un’attenta introiezione del movimento. Non c’è suono. Sono quasi le cinque.
Anna mi chiama. Mi fornisce gli accrediti. Mentre parla con me, il telefono le suona cinque volte. Come un orologio casuale che per una strana perizia del fato suona esattamente le ore che il quadrante reale nello schermo dello smartphone segnala con inattaccabile giustezza.
Intanto ho bisogno di una macchina. Ci sono due ragazze che stanno per portare le casse allo spettacolo imminente al Lago di Chiusi. Sono automunite. Attingo un passaggio che gentilmente mi viene concesso. L’anziano autista mi chiede “Ma te, fammi capì, se ‘n c’ero io con che venivi giù? A piedi?”. “Sì” rispondo con sommessa fierezza, e gioia dell’azione, che contraddistingue la mia passione per l’arte scenica “probabilmente, sarei sceso a piedi”.
Ore 17:30
Al Pesce d’oro l’ambientazione è mistica. Anche qui arrivo molto presto rispetto allo spettacolo. Sento le battute di due diverse pièce, che ancora stanno provando. L’omosessuale o la Difficoltà di esprimersi è un continuum di grida lancinanti che si ripetono. Si ripetono le stesse frasi. Tre volte. È una prova, giustamente, ma sembra una litania rabbiosa e rituale. Eva Robin’s rimane inerte sul pontile di legno dolcemente appoggiato sul lago. Un attore si getta in acqua ed inizia, in stile libero, a varcare lo spazio tra le due piattaforme di cemento che si allungano verso le profondità lacustri. Le onde generate dal suo vorticoso movimento sulla superficie si organizzano in precise increspature sul piano immobile dell’acqua semi-palustre d’agosto. Il suo corpo è un’isola. Un’isola misurata nella sua bellezza.
“Orizzonti Festival si propone il duplice obiettivo di esportare la storia e le tradizioni della città di Chiusi e insieme importare in questo territorio elementi di ricerca e sperimentazione culturale italiana e internazionale.”
Mi sposto verso lo spazio centrale tra i due pontili, in cui è allestita la scena de “Gli Dei di Lampedusa”, scritto e diretto da Laura Fatini. Anna Maria Meloni, una delle attrici, è già in abiti di scena: un lungo vestito rosso ed un turbante, dello stesso colore, che le fornisce un’aura esotica e materna, un trionfo della natura arrossata delle fauci del Mediterraneo, che sembra apparire, ora, al posto del Lago di Chiusi, con la sua apertura celeste, timida e lungimirante, il suo speculare immergersi, rappresentandosi come altro dal mare che impersona, nell’azzurro infinito del cielo.
Vedo Laura Fatini addentare un Maxibon. “Mi fai venire fame” le dico. Con lei entro dentro il bar giustapposto all’ingresso del piazzale erboso sul lago. “Ti vedo nervosa” le dico ironicamente “che hai?”. Freddamente mi risponde “Non mi rassicura l’amplificazione” mi confida “Non sopporto l’idea di sentire una voce in stereofonia, quando l’attore che la dice si trova in un preciso lato del palco”.
La Comédie Humaine è già qui, di fronte ai miei occhi. È un continuum scenico di frasi e deviazioni narrative. Chiedo al barista “Scusi, prima di prendere il Maxibon, vorrei usare il bagno, se mi dice dove posso trovarlo”. Lui contrae la bocca in uno spasimo di ironia e benevolenza, “Guardi” mi fa “E’ là dietro quella porta bianca. Io di solito sono chiuso il martedì, ma ho aperto esclusivamente per permettere l’uso del bagno…” potrebbe fermarsi qui. Potrebbe non aggiungere altro. E invece sente la necessità di varcare il limite della loquacità, sostenendo: “certo che per organizzà le cose al lago, chiamacci la gente e unn’avecci il bagno, bisogna esse proprio di Chiusi…”
Intanto iniziano a comporsi piccoli segnali di disagio. Non ci sono ancora né posti per far sedere il pubblico, né transennamenti. Arrivano tutti i leader della gestione dell’evento. Risolvono la situazione in pochi minuti, mentre gli attori iniziano a scaldare la voce tenendo precise vocalizzazioni diaframmatiche. Insieme formano un accordo di settima minore.
Il sole dona un notevole tono lirico a tutto il panorama. La luce delle 18 meno dieci già anticipa una precisa e rassicurante corale delle livellature ambientali che vanno sovrapponendosi. Sul pontile, seduti, Pierangelo Margheriti e Giulia Roghi ripassano le battute. Mi avvicino per salutarli, per dire loro “Merda merd…” . Mi fermo. Stanno dicendosi le battute con una naturalezza irripetibile. Seduti sul bordo del lago. È un’immagine definitiva, irraggiungibile. Metateatrale. Mi blocco per quella notifica di cui sopra, riguardo alla basica elementare della formazione scenica. Quell’edificazione del demone del palco – che è una spiaggia – quella monodica diffrazione di gesti, sguardi e parole donate all’aria, prima dello spettacolo, per poi ritrovare tutto, nella stessa aria dell’azione scenica. Più in là Calogero Dimino è già il personaggio che andrà a rappresentare.
Ore 18:10
Tra il pubblico, il mio vecchio professore di biologia del liceo, accompagna alcuni amici stranieri. Si siede poco dietro di me e indica loro qualcosa sulla superficie del lago “Là, vedete? Uno Svasso. Femmina. Adesso si immerge, guarda…” osservo l’uccello nidificatore affondare prima il collo, poi l’intero busto nella piattaforma immobile dell’acqua, che si corruga in onducole senza coscienza.
Inizia lo spettacolo. Il monologo iniziale di Pierangelo Margheriti è già un pugno nello stomaco. Siamo su un barcone che dalle coste africane ci porterà in Italia, in quell’occidente tanto agognato, quell’occidente libertario e meraviglioso visto nelle copertine e negli schermi delle televisioni dei bar. Quell’occidente così bene rappresentato, nella vendita che lui stesso vuole infondere, nella nostra africa, dei suoi meravigliosi prodotti, fabbricati per lo più grazie alle materie prime che dalle nostre terre ha depredato. Quell’occidente così ben rafforzato dalle armi che costruisce e ci vende, per poi accusarci di usarle, quando le effrazioni superano qualsiasi tipo di umanità concessa dalla storia.
Calogero Dimino è siciliano di per sé. Interpreta il becchino di Lampedusa che raccoglie i cadaveri dei migranti, uccisi dai disumani viaggi nelle stive dei barconi, ai quali sono costretti dalla disperazione, per seppellirli. È il secondo pugno emotivo, che è già un knockout dopo solo dieci minuti di spettacolo.
Gli attori appaiono bravi. Il testo è altisonante. Mette insieme elementi della tragedia greca, letteratura contemporanea e comunicati ufficiali e non ufficiali dei giorni del terribile naufragio, lo scorso aprile, in cui persero la vita centinaia di migranti.
L’ambientazione naturale, che rifornisce ogni parola, ogni gesto, ogni singolo sasso mosso dalle coreografie e dalle coordinate sceniche, mostra la contrazione di un mondo che si aggroviglia su sé stesso. Un mondo in posizione fetale, in lacrime, un mediterraneo che è il suo ventre e che è premuto dalla furia di un dio biblico dell’antico testamento, un Mare Mediterraneo che si fa garante di un ordine tragico apollineo, il deus ex machina della morte livellatrice.
Ore 20:30
Torno a Chiusi Città, dopo aver cercato, in modo fallimentare, di saltare su una barchetta che mi avrebbe dovuto portare al centro del lago dove Silvia Frasson avrebbe rappresentato Mustiola, la santa patrona di Chiusi, e il suo volo. Non ce l’ho fatta, quindi, malauguratamente. Entro già al Chiostro di Sant’Agostino, dove a breve andrà in scena la “Ballata per Giufà”, testo di Laura Fatini, regia di Gabriele Valentini. Trovo tutto lo staff che organizza gli ultimi accorgimenti all’allestimento dello spettacolo. Valerio Rossi, il Giufà del titolo, sta sotterrando una Rosa. “Come stai?” gli dico. Mi guarda, non risponde, sorride.
Gabriele Valentini controlla le sue lenti Transition e il loro oscurarsi a seconda dell’intensità della luce naturale. Il fatto che siano trasparenti indica l’incipiente inizio della mise en scène. “Io direi che vi potreste andare a preparare…” fa agli attori. Si ferma a guardare Valerio Rossi e Giulia Rossi, rispettivamente Giufà e la Donna di Piazza. Dice solo “Ti ricordi? Carichi, carichi, carichi, e poi esplodi. Mi sono spiegato?” tutto tace “Mi sono spiegato?” ripete. “Sì, mi sono spiegato.”
Ore 21:15
Giufà è il personaggio principe delle narrazioni popolari della tradizione orale, un personaggio picaresco delle storie ancestrali, dalla più che rilevante caratura d’interesse antropologico. Giufà è presente in tutti i paesi del mediterraneo, con vari nomi, varie fatture. Ha più colori, più modi di essere. Ma le storie sono le stesse. E le sue storie girano il bacino del mediterraneo, senza la minima radice se non quella della totale appartenenza al flusso umano del racconto. Qualche giorno fa, al teatro Signorelli di Cortona, avevo sentito Ascanio Celestini raccontare diverse storielle su Giufà ad una velocità cabarettistica, da teatro di narrazione. Adesso invece, nella versione di Fatini/Valentini la vicenda è filtrata da una contestualizzazione iperuranica, lenta, tanto da sembrare una tragedia euripidea: sabbia sul piano scenico non inclinato, due pali irregolari di legno, una minuziosa incastonatura di pannelli bianchi, con un panno velatino centrale, dal quale filtrano immagini retrostanti, se rilucenti, e diviene manto omogeneo se illuminato dai par led dell’americana frontale. Una cifra stilistica, ormai più che riconoscibile, del gusto registico di Gabriele Valentini.
Il Giufà interpretato da Valerio Rossi è un folle, un sommarsi di personalità continue, scatti di sclerosi emotiva, switch di stati d’animo indeterminabili. Il Giufà espone i suoi ardimentosi percorsi argomentativi, nei colloqui con le due magnifiche figure interpretate da Mascia Massarelli e Claudia Morganti, con un crescendo di contrazioni. Come i gatti quando vomitano. Come le pulsazioni di un orgasmo.
L’unico rilassamento avviene nello splendido scambio di battute tra Giufà e la Donna della Piazza, interpretata da una Giulia Rossi di inossidabile bellezza. Il dialogo sembra arrivare da un fuori tempo e spazio, da un oltreoceano che vive solo nelle ipotesi di chi osserva. Giufà non è più Giufà, ma è le storie che indossa, e passa di bocca in bocca, come i popoli si spostano di terra in terra. Lo stabilimento, il ritrovare le stesse cose nei soliti posti, significa stuprare la tessitura delle narratologie universali.
Le storie popolari di Giufà, si basano molto spesso su comparative dirette dal risvolto comico; “come le stelle hanno potuto riscaldare me, allora possono pure riscaldare la pentola” dice Giufà al Sultano, “Come una pentola ha potuto figliare, allora ha potuto anche morire” dice al rigattiere. E così, queste piccole vicende, ci guardano e ci ri-guardano, nella nostra immedesimazione, dell’essere tanti uomini, forse tutti gli uomini, che avranno nomi e forme diverse, costumi, abitudini diverse, ma fondamentalmente appartenenti alla stessa, identica, maledetta storia.
Ore 2:00
Sono sul mio letto. Tornare a casa è stato un gloriaalpadre, determinato da un elemosinare un passaggio, concedutomi poi da una cara amica, fortunatamente presente tra gli spettatori della Ballata per Giufà. Mi viene in mente un passo dell’Antologia Palatina, che vado a ricercare;
Ti brucerò, porta, con questa torcia,
brucerò chi sta dietro. Poi fuggirò ubriaco
attraverso l’Adriatico dal colore del vino, mi rifugerò
dietro un’altra porta: sarà la notte ad aprirla.
Ed osservandomi nelle lamentele che ogni giorno muovo a me stesso – e alle Capre che vivono in queste lande toscane, apparentemente grette e incolte – mi rendo conto di come il flusso umano che ruota intorno al mediterraneo comprenda anche la mia gente. E in questa stessa parte di mondo, così impura, inetta, la quale accuso di tappare le ali alle aquile e coprire lo sguardo ai falchi, mi rendo conto, sono stati fondati festival di teatro e musica di rarissima bellezza. Per il Festival Orizzonti e per tutti gli altri capolavori di innalzamento dei termini umanistici, possiamo dirci veramente fortunati. E forse, il motivo per cui sono ancora qui a scriverne è proprio la profonda e sacrosanta fortuna che intravedo in questa giornata sfigata.
Il teatro “local” di Orizzonti raccontato dagli artisti
di Tommaso Ghezzi
“Ballata Per Giufà” e “Gli dei di Lampedusa” sono stati i segmenti teatrali “local” del Festival Orizzonti. Quella definita come “Compagnia del Festival Orizzonti” è una catalizzazione di un lavoro che da anni opera in tutta l’area Valdichiana, tra Montepulciano, Sarteano e Chiusi, costruendo spettacoli di alta caratura e impegno da parte dei registi, degli attori e degli scenografi. Ho incontrato Laura Fatini, autrice dei testi dei due spettacoli e regista de “Gli Dei di Lampedusa”, Gabriele Valentini, regista di “Ballata per Giufà”, Valerio Rossi, che interpreta il Giufà nello spettacolo diretto da Valentini, e Andrea Cigni, sommo direttore del Festival Orizzonti, alla fine di una lunga giornata di sudore e spettacoli, bevendo birra artigianale.
Che cos’è, quindi, il mediterraneo?
Gabriele Valentini: Il Mediterraneo, inteso come luogo fisico è “il mare tra le terre”. Come luogo spirituale, invece, rappresenta un incrocio di culture e di idee. Un grande spazio acquatico senza quei confini che purtroppo ci sono.
E ‘Giufà’ come rientra in questa definizione, in questa coordinazione geografica la storia ancestrale, la mitopoiesi dei racconti che coinvolgono questo personaggio?
Laura Fatini: Giufà è il mediterraneo. Esiste in tutti i paesi che si affacciano sul nostro mare con vari nomi e varie caratteristiche. È dal 1100 che le sue storie varcano tutte le coste del mediterraneo. Un convegno tempo fa comparò Giufà, Sancho Panza e Ulisse. Io sono perfettamente d’accordo nel considerarlo un elemento essenziale per la cultura totale del Mediterraneo.
Valerio Rossi: Il mio Giufà, invece, rispecchia il concetto – che io e il regista dopo un bicchiere di sambuca abbiamo scoperto nell’identificazione del personaggio – di “ecolalia”. Il ripetere cioè cose che ti sono state dette. forse sin da bambino, e dopo averle immagazzinate continui a ripetere involontariamente. Acquisisci le storie di tutti immettendoti così in un contesto simile a quello del luogo spirituale rappresentato dal mediterraneo, ovattato, a coste chiuse, ma pieno di racconti.
Dopo anni ed anni di collaborazioni, tangenti Valentini-Fatini le vostre personalità artistiche si sono perfezionate. Quali sono le affinità e le divergenze tra voi due?
Gabriele Valentini: Le divergenze sono totali. Ci sono due strutture, due culture diverse. Nello specifico, la cosa divertente per “Ballata per Giufà” è stato prendere un testo di Laura e giocarci, cercando di rispettare la parola scritta, ma personalizzando la teatralizzazione: dai costumi alla regia generale. E credo di averlo cambiato completamente, rispetto a come lo aveva inteso lei.
Laura Fatini: Sì, noi vediamo i testi in maniera opposta e la cosa straordinaria è che riusciamo a fare regie insieme! Credo però che negli anni ci siamo contaminati. Lui mi ha insegnato molto l’uso delle strutture sceniche, la scenografia. Io invece non credo di avergli insegnato nulla, ma forse qualcosa sì… ho una maggiore visione d’insieme grazie a lui. Per il resto lavoriamo in maniera completamente opposta, ed è questo il bello della collaborazione. Altrimenti non ci sarebbe nessun frutto, no?
Gabriele Valentini: Se lavorassimo nello stesso senso di marcia, nella stessa direzione, sarebbe anche noioso seguire i progetti. Per me, la sfida divertente di questo Giufà, per esempio, è l’aver preso un linguaggio completamente diverso dal mio, che è quello della Fatini, scritto, e trasformarlo in qualcosa di visivo che mi somigliasse di più rispetto a ciò che lei aveva scritto.
Laura Fatini: sarebbe bello vedere in scena i due Giufà. Noterebbero tutti la totale diversità dei personaggi.
E invece, Andrea Cigni, per te è difficile collocare i registi locali con dei grandi del teatro contemporaneo? Voglio dire Insieme a Laura Fatini e Gabriele Valentini, che lavorano da anni nel territorio, hai immesso nel programma Pippo Delbono o Roberto Latini della Fortebraccio Teatro…
Andrea Cigni: Dal momento che credo fortemente in questo progetto voglio portare, il progetto che ho in mente, fino in fondo. Quindi il mio pensiero è che il territorio non si debba abbandonare. In ogni caso, non credo che sia una questione di territorialità; Valerio Rossi, per esempio, ci è nato a Chiusi, ma adesso vive da tutt’altra parte. (vive a Londra da tre anni, ndr) Credo sia una questione di opportunità, e non di provenienza. Una questione occasioni e opportunità create. Che poi io abbia scelto persone che operino qui è un dettaglio non poi così rilevante. Mi fa piacere che il festival rappresenti un punto di arrivo di realtà lontane tra loro, ma anche un punto di partenza per gli artisti che hanno scelto di rimanere qui, non per mortificarsi, ma perché credono che portare avanti un progetto nel proprio territorio abbia lo steso valore che portarlo nelle grandi città. Anche Roberto Latini, per esempio, è romano, ma ha scelto di vivere a Bologna, voglio dire. Poteva benissimo rimanere a Roma. Per cui credo fermamente che loro abbiano scelto di operare qui e sfruttare ciò che il territorio offre. a me spetta il compito di aiutarli sostenerli e creargli un terreno sul quale loro possano lavorare. Loro hanno avuto il coraggio di togliere tante persone dalla casa, dai cellulari, e riunirli intorno al valore del teatro, inteso come luogo in cui si vedono e si sperimentano delle cose.
Sei al secondo anno di direzione artistica del festival; rispetto all’anno scorso, nell’economia generica dell’ambiente, anche relativamente alle risposte di questa terra, come si è configurata l’evoluzione, se un’evoluzione c’è stata, del “progetto Orizzonti”, a tuo parere?
Andrea Cigni: Da parte mia ho visto un radicamento molto rapido, in questi due anni. Ho fatto il primo sopralluogo nell’estate di due anni fa. Era il momento di picco turistico e dormivo in un B&B qua vicino. Chiusi mi sembrava – lo posso dire? – un piccolo Bronx. Sembrava la caduta degli dei, una desertificazione generale. Questo è stato destabilizzante, per me. Poi però ho cercato di creare degli stimoli. Il festival e la sua struttura si sono radicati, secondo me, e non soltanto per la città di Chiusi, ma anche dall’esterno: riconoscere in questo luogo un posto dove si fa teatro, in varie sfaccettature. È una crescita in controtendenza poi, perché non è così scontato avere serate piene di lunedì e martedì. Questo mi fa felice, non per me – non ci stiamo guadagnando cifre astronomiche per comprarci le ville – ma per le persone che vengono, osservano e vivono questo luogo bellissimo, in questi giorni. Sentire persone o anche i vari Pippo delBono o Latini o un musicista qualunque, che ti dicono “qui a Chiusi sono stato bene” e “Grazie” – e ti assicuro che non lo fanno per i soldi – è un bel successo per me, per quello che ha rappresentato nel mio percorso personale questo festival, e soprattutto per loro.
Si chiude il sipario su #Orizzonti15, si apre su #Follia16
di Valentina Chiancianesi
La XIII edizione del Festival Orizzonti si è conclusa con la convinzione che ancora tanto si possa fare nella direzione di una continuità e connessione con il territorio di Chiusi: Orizzonti Festival sipropone il duplice obiettivo di esportare la storia e le tradizioni della città di Chiusi e insieme importare in questo territorio elementi di ricerca e sperimentazione culturale italiana e internazionale.
Il vicesindaco Juri Bettollini con la presidente della Fondazione Orizzonti d’Arte Silva Pompili e il direttore artistico Andrea Cigni hanno dichiarato durante la presentazione del tema dell’edizione 2016 del Festival la necessità di lavorare con più continuità nell’arco dell’intero anno per raggiungere questi obiettivi. Dalle scuole alle realtà cittadine Orizzonti Festival non può limitarsi a rappresentare soltanto 10 giorni estivi di eventi ma deve diventare un elemento costante nella programmazione artistica della fondazione e della città.
Silva Pompili racconta la sua prima esperienza da presidente della Fondazione Orizzonti durante i frenetici giorni di Orizzonti Festival
Silva Pompili, la sua prima esperienza da presidente è andata, come la descriverebbe?
“E’ stata una bellissima esperienza, impegnativa soprattutto, perché per me è una cosa del tutto nuova rispetto a quello che faccio normalmente, ma allo stesso tempo è stimolante perché si scoprono cose nuove e mondi nuovi. L’ambiente culturale è veramente bello, fa piacere restare al suo interno. È chiaro che dall’esterno non ci si rende conto dell’impegno della macchina organizzativa che c’è dietro a un festival del genere, e anche io fino ad adesso non me rendevo pienamente conto”.
La nostra redazione ha raccontato il festival da un altro punto di vista, andando ad analizzare la fruizione della manifestazione dai cittadini. Secondo lei i cittadini come percepiscono il festival?
“Sicuramente c’è ancora un po’ da lavorare su questo lato, non è ancora visto come parte integrante e viva della città. C’è stato un miglioramento rispetto alle edizioni passate. L’anno scorso ho vissuto il festival non da presidente e devo dire che c’era una reticenza completa, mentre quest’anno, probabilmente con l’esperienza vissuta l’anno scorso e con il fermento che gira intorno al festival, c’è stato un atteggiamento diverso, però ancora c’è da lavorare”.
Come cercherete di lavorare per migliorare questo aspetto?
“Quello che noi cercheremo di fare è creare un percorso che parte dalla stagione invernale per poi arrivare al festival. Percorso durante il quale cercheremo di avvicinare sempre di più le persone a questo mondo. Questo è il secondo anno del festival così organizzato e quindi ci vuole un po’ di tempo per riuscire a somatizzarlo, capirlo e conseguentemente viverlo”.
Per l’ultima giornata di festival avete svelato il tema della prossima edizione e il 2016 sarà all’insegna della Follia. Perché questa scelta?
“Perché per fare tutto questo si deve essere un po’ tutti folli, ma pronti ad affrontare l’edizione 2016, anzi ci stiamo già muovendo”.
Questo il percorso condurrà a Orizzonti Festival 2016, che sarà incentrato sulla Follia, Follia intesa nel senso di quella leggera sconsideratezza, necessaria per saper sostenere ed intraprendere percorsi coraggiosi e arditi. Ne abbiamo parlato con il Direttore Artistico Andrea Cigni, che ha fatto il bilancio dell’edizione appena conclusa.
Andrea Cigni, soddisfatto di questa #mediterranea2015?
“Grande soddisfazione per tanti motivi, uno perché ho potuto catturare l’attenzione di tanti operatori teatrali italiani e stranieri, moltissimi giornalisti e soprattutto tanto pubblico specializzato ma anche semplicemente appassionato e curioso, un’edizione che ha saputo dimostrare di crescere. In questi giorni abbiamo avuto l’attenzione del Ministero della Cultura che durante tutte queste giornate sono stati con noi, i loro funzionari hanno verificato effettivamente come è stato l’andamento del festival”.
Se tu dovessi cambiare qualcosa di questa edizione, cosa cambieresti?
“Non cambierei niente, a parte il tempo che negli ultimi giorni non ci ha assistito e ci ha creato alcuni problemi organizzativi, ma comunque non cambierei ma migliorerei, potenziando il punto di vista comunicativo, ovvero partendo prima a comunicare a tutta Italia quello sta succedendo a Orizzonti e a Chiusi in particolar modo. Anche perché devo ammettere che in verità non ci rendevamo neanche noi conto quanto fosse grande la cosa, forse ci siamo focalizzati principalmente sull’aspetto artistico tralasciando un po’ l’aspetto comunicativo”.
Un festival che sta crescendo di anno in anno: qualche anticipazione per la prossima edizione?
“Un festival che sta crescendo nella progettualità. Abbiamo presentato l’edizione 2016, il tema sarà Follia. La prima data sarà il 29 Luglio2016 e posso anticipare già che inaugureremo con una Traviata e chiuderemo il 7 Agosto con il premio Orizzonti, che ancora non posso dire a chi daremo. Abbiamo costituito un’orchestra di 40 elementi giovani, faremo audizioni durante l’arco dell’anno con con tantissime novità. Chiusi diventerà davvero un punto di riferimento delle arti”.
Perché sarà la follia il tema di Orizzonti Festival 2016?
“Follia perché è ciò che ci guida nel fare questo esperimento e questa esperienza. In questo momento, dove si sta verificando una piccola debacle culturale, in realtà vogliamo dare un segnale di rinascita, di rinascimento, attraverso quella che è la nostra passione, e la passione di solito è sempre guidata da un piccolo seme di follia. Per cui vorrei che tutti gli artisti ospiti al Festival fossero ispirati dalla stessa follia che ci ha ispirato nel creare e nell’inventare Orizzonti Festival”
E se Franca Valeri dovesse spendere qualche parola sul teatro direbbe: Il teatro è sinonimo di libertà, cultura e fantasia in grado di regalare qualcosa alla gente e di allungare la vita.
Credits e Ringraziamenti
ZENIT: Quotidiano di informazione e critica di Orizzonti Festival 2015 – Chiusi Anno 1. Ideato e curato da Teatro e Critica (Andrea Pocosgnich e Viviana Raciti). In redazione: Marco Argentina, Sofia Bolognini, Edoardo Borzi, Valentina De Marchi, Micol Gaia Ferrigno, Andrea Zardi. ZENIT è frutto del laboratorio Teatro e Critica LAB tenuto all’interno di Orizzonti Festival 2015, con il sostegno di Fondazione Orizzonti d’Arte – Scarica qui tutti i pdf
La redazione di Valdichiana Media ringrazia per la collaborazione la Fondazione Orizzonti e il suo ufficio stampa, sempre disponibile ed efficiente; i media partner Teatro e Critica e Radio Trasimeno per i materiali forniti e per il supporto.
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