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Giordano Meacci – Tracce di Valdichiana al Salone del Libro 2016

Giordano Meacci – Tracce di Valdichiana al Salone del Libro 2016

A Torino, durante il Salone del Libro 2016, è stato possibile rintracciare elementi di Valdichiana anche laddove nessuno si sarebbe aspettato di trovarli.

Giordano Meacci dispone le mani oblunghe sui fianchi, lo sguardo obliquo dietro le lenti circondate da finissime montature, da mastro artigiano d’altri tempi. La camicia bianca con i baveri fuori dalla rovescia della giacca, la voce rassicurante e la gestualità di chi non sembra aver scalfito la sua personalità dopo la grande attenzione suscitata dal suo ultimo romanzo, “Il Cinghiale che Uccise Liberty Valance”, per i tipi  Minimum Fax, 2016. Una personalità che non si è lasciate esaltare eccessivamente nemmeno dalla firma che ha applicato alla sceneggiatura di “Non Essere Cattivo”, l’incensatissima opera-testamento di Claudio Caligari, stesa assieme allo stesso regista e a Francesca Serafini.  Durante il Salone del Libro 2016 lo si è potuto incontrare più volte, in veste formale e informale, vestito di una disponibilità rara, nel contesto spietato e talvolta fasullo dell’editoria italiana.

In uno di questi incontri, la rivelazione più grande è stata scoprire la profonda traccia di “toscanitudine” e l’alto tasso di Valdichiana, presente nella poetica – e nella vicenda familiare – di Meacci. La famiglia di suo padre è infatti originaria di Valiano di Montepulciano. Questo spiega in maniera incontrovertibile, l’interesse sociolinguistico che ha avuto nei confronti del nostro territorio, nel romanzo sopracitato – tra l’altro candidato al premio Strega 2016. “Il Cinghiale che Uccise Libery Valance” si svolge infatti in un paesino immaginario, chiamato Corsignano, al centro di un’area, a cavallo tra Umbria e Toscana, che mescola elementi reali a elementi immaginari. In esergo al romanzo, Meacci appone una cartina di riferimento (immagine di copertina).

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Copertina del libro

Dal plot è possibile desumere la capacità di crossover stilistico di Meacci, l’esuberanza poetica e la precisa dedizione che l’autore immette nella gestione linguistica del testo. Essendo egli, di formazione, uno storico della lingua, cura in maniera spasmodica la resa dialettale dei personaggi, le variazione delle isoglosse glottologiche tra Toscana e Umbria, nonché l’invenzione, attendibile e verosimile della lingua dei cinghiali. Sembra un fantasy, ma non lo è. È un romanzo postmoderno, nella trasgressione mediale, nella gestione delle atmosfere narrative e nei passaggi temporali del racconto.

Un cinghiale, in questo contesto immaginario – ma non troppo – comincia ad avere sensazioni e sentimenti umani. Apperbohr –  il cinghiale, si chiama – inizia ad assumere sentori emotivi tipici dell’umanità che ovviamente sono misconosciuti dal branco, con cui finisce per confliggere.   Nel frattempo, nella comunità di Corsignano si dipanano, in ramificazioni parallele, le vicende di alcuni piccoli nuclei relazionali, familiari e sentimentali: i Bui, i Salvani, i Bruni, i Malpighi. Tracce di umanità locale che si assolutizzano, che coprono le gesta storiche di un’umanità usurpata dalla bestialità, dalla “ferocia”.

Giordano Meacci vive a Roma, di tanto in tanto viene dalle nostre parti. Se vi capita, scambiateci quattro chiacchiere. Il suo parlare è nutrimento. Il suo scrivere, ancora di più.

 

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