Se in America, David Forster Wallace ha già raccontato il tennis nel suo cristallino “Roger Federer come esperienza religiosa”, anche per noi italiani si sta facendo largo un nuovo metodo di tessitura narrativa esclusivamente dedicata alla mistica dello sport. Da qualche anno molti autori/giornalisti come Simona Ercolani (autrice di ‘Sfide’), e soprattutto Federico Buffa, che ha edificato un sistema comunicativo per mezzo del quale sta occupando gran parte del palinsesto di Sky Sport, hanno seguito la poetica della narrazione in ambito di giornalismo sportivo, rammentando al mondo della stampa che un tempo, coloro i quali facevano ‘cronaca’ erano personalità del calibro di Dino Buzzati, Giovanni Arpino e Mario Soldati, che di certo non si limitavano a registrare un risultato o una classifica, ma cercavano molto di più. La poesia italiana, d’altronde, si era già aggiornata a vedere nell’agonico vigore delle emozioni legate allo sport, un riverbero più che legittimo dell’antico sentore epico; “La folla – unita ebbrezza- par trabocchi / nel campo: intorno al vincitore stanno, / al suo collo si gettano i fratelli. / Pochi momenti come questi belli, / a quanti l’odio consuma e l’amore, / è dato, sotto il cielo, di vedere.” Umberto Saba celebrava così un gol calcistico, probabilmente marcato dalla Sua ‘Triestina’, pienamente immerso in quello ‘spirito popolare’ dell’umanità quotidiana e prosaica che coinvolgeva le sue liriche. Molto più prosaico Vittorio Sereni, che anni dopo celebrò un ‘Inter – Juve’, con la tiepida potenza degli endecasillabi: Il verde è sommerso in neroäzzurri. / Ma le zebre venute di Piemonte / sormontano riscosse a un hallalì / squillato dietro barriere di folla. E di esempi ce ne sarebbero a centinaia.
Quanto i gol di Maradona contro l’Inghilterra (sì, tutti e due) ai quarti del mondiale ’86, possono quindi accedere nel parnaso dell’arte in qualità di “Opere”?
Lo sport catalizza le più disparate tensioni degli esseri umani e le dispone attraverso un’estetica. Basterebbe questo per assurgere il tema a dignità artistica, anzi, forse qualcosa in più, visto che in questo caso gode anche di una ben più valevole oggettività critica, rispetto alle opere dell’ingegno artistico nella campitura culturale delle humanities.
C’è chi, partendo dalla cronaca sportiva locale, ha acquisito in maniera pregevole la disposizione d’animo narrativa per elargire e diffondere una poetica dello sport diversa rispetto alla cronaca pura.
Riccardo Lorenzetti è quella persona dalla quale vorresti farti rispiegare le lezioni perdute degli esami più ardui. Lo ascolteresti, in reverente ossequio, anche mentre ti parla dei composti chimici della nimesulide o mentre ti spiega tutti i comma degli articoli più astrusi del codice civile. Possiede un’invidiabile database mnemonico, contenente più o meno tutta la storia dello sport (mondiale e locale) dal secondo dopoguerra ad oggi. Dopo un’esperienza trentennale tra radio e televisione (dove si è occupato non solo di sport, ma anche di cronaca) ha pubblicato nel 2013 “L’anno che si vide il mondiale al Maxischermo” (primamedia, 2013), una squisita raccolta di racconti brevi, tutti incentrati sulla tematica dello sport nazionale che si mescola con la vita della provincia toscana: nella fattispecie di Petroio, paese nel quale è nato e vive tutt’oggi. Da qualche tempo, Riccardo coinvolge i teatranti del territorio per dare una forma scenica alle storie (lo spettacolo “Massischermo”, tratto da un suo racconto, ha registrato il sold out nei teatri toscani e non) ed è così che io stesso l’ho conosciuto (in realtà venne a fare delle riprese, in qualità di giornalista di una televisione locale, nello spogliatoio degli esordienti B del Guazzino nel 2002, ma me lo ricordavo poco io e non se lo ricordava per nulla lui.)
Da poco è uscito il suo secondo testo di scrittura creativa. Questa volta è un romanzo, una vicenda organico con un plot entusiasmante. Si intitola “La libertà è un colpo di tacco” per Curcio Editore, con una pregevole introduzione firmata da Federico Buffa, il patrono della poetica sportiva del nostro tempo presente, che – di fatto – investe da subito il libro di un’aura vibrante.
Il testo narra delle vicende di una sbilenca fan-zine brasiliana della squadra calcistica paulista del Corinthians nei primi anni ’80, alle porte dell’apertura democratica dopo i vent’anni di regime militare.
Nel 1982 il Corinthians vince il campionato paulista con la parola “democracia” stampata sulle magliette. Il capitano, Socrates, celebre nel nostro paese per un’infelice segmento di carriera a Firenze, dove si distinse solo per la potenza immaginifica, conquistandosi più soprannomi che altro, stava portando avanti una forma di rivoluzione cellulare, un soviet calcistico, una comune di ‘intellettuali’, primariamente che giocatori di calcio. Un nucleo democratico immesso nei duri anni della dittatura militare brasiliana, per quanto ammorbidita dalle scelte ‘progressiste’ del presidente Figueiredo. Lo spogliatoio del Corinthians di Socrates era autogestito. Ogni decisione riguardante la vita del club veniva messa ai voti dalla “comunità”(orari e menù dei pasti, ritiri, schemi di gioco, titolari, et cetera). Dal magazziniere agli addetti alle pulizie, dai dirigenti ai massaggiatori, dai panchinari fissi al ‘capitano’, tutti avevano il diritto al voto. Tutti erano influenti allo stesso modo per la vita comune della squadra.
Probabilmente è l’estensione social-democratica del lato più umano del calcio moderno, quello che già Nereo Rocco aveva inteso come “la commissione interna”; lo Spogliatoio, nella sua accezione più metaforica, il Gruppo che valuta le possibilità di vittoria contando sulla compattezza unitaria dell’insieme, e non sulla somma delle ricchezze di ogni suo componente.
La stagione calcistica del Corinthians è lo sfondo e lo spunto di un discorso narrativo che coinvolge sì il mondo del calcio, ma anche tutta la cornice che – di fatto – è il nutrimento principe delle nostre esperienze comuni.
Come diceva Terenzio “nulla di umano è estraneo alla letteratura” e lo sport è la forma più diretta attraverso la quale gli impeti degli uomini, e quindi l’oggetto della letteratura, si configurano.
Ho incontrato Riccardo alla fine della presentazione di “La libertà è un colpo di tacco” alla libreria ‘La Pergamena’ di Sinalunga.
Il lunedì mattina, un tifoso o un appassionato di sport, compra la Gazzetta, pur avendo visto molte volte i replay, i dibattiti televisivi, le dirette in payTV. Che cosa dovrebbe cercare oggi un lettore di giornalismo sportivo?
Riccardo: Dovrebbe cercare quello che i giornali sempre più faticosamente forniscono. Quando ero ragazzo i giornali erano pieni di cronaca. Erano gli approfondimenti di ciò che avevi visto in televisione, ma pur sempre cronachistica. Oggi come oggi i giornali stanno virando verso altre cose. Ormai il ‘quotidiano’ è stato ammazzato dal progresso; quello che scrivi la sera per il giornale che deve andare in stampa nella notte, è già vecchio la mattina seguente, perché ci sono già stati i vari lanci di agenzia, le informazioni sulla rete, eccetera… Oggi i giornali dovrebbero privilegiare quello che è il racconto e la sua qualità. Al di là dei contenuti, ciò che devono privilegiare i giornali, non solo quelli sportivi, è la forma. Il giornalista deve scrivere bene. Il suo mestiere non si limita più a descrivere l’evento. Il suo obiettivo è raccontare tutto quello che gira intorno alla vicenda, le storie, i personaggi, le dinamiche narrative.
Quanto bagaglio culturale c’è dietro lo sport locale in provincia, per te che sei un mentore della narrazione sportiva locale?
RL: Il calcio dilettanti, dall’Eccellenza fino alla Terza Categoria, è stato favoloso fino a venti anni fa. È ormai morto e defunto, e mi assumo le responsabilità di quello che dico. È morto perché chi doveva curare dal punto di vista mediatico i racconti delle squadre, dei personaggi, degli intrecci, non ha saputo farlo. Ha preferito limitarsi ai tabellini dei risultati. Alla fine questo movimento non ha creato più interesse ed è stato sopraffatto da pratiche più seducenti come la payTV. Questo ha finito per lenire ciò che le squadre di paese rappresentavano; l’appartenenza, gli orgogli, il campanilismo buono.
Sapessi quante storie ci sono nel calcio dilettantistico, storie di giocatori, allenatori, dirigenti. Tutto questo è stato ignorati dai giornali e dalle televisioni locali, che hanno preferito stampare un’asettica serie di risultati. Ecco come è scemato l’interesse per questa realtà e uno stadio comunale di provincia pieno non si vede più. Se si fosse perseguita quella qualità formale anche a livello locale, il calcio dilettanti si sarebbe salvato d questa deriva, ed ora ha bisogno di uno sforzo che chissà se basterà.
Qual è lo spazio letterario dello sport?
RL: È l’unica frontiera rimasta. In Italia quando si parla di “narrazione legata allo sport”, intendendo la narrazione nella sua accezione più ampia, quindi anche TV e cinema, ci si muove sempre con i piedi di piombo. Quando lo sport è stato raccontato ‘seriamente’ si sono verificati dei fiaschi colossali. Quando i risultati sono stati ottenuti, i modelli sono stati “Un allenatore nel pallone”, quindi la Longobarda di Oronzo Canà, Gigi e Andrea, l’Alvaro Vitali di “Paulo Roberto Cotechiño centravanti di sfondamento”… ecco ci siamo capiti. Tutto per carità ha una sua dignità. Quando però ti accorgi che negli Stati Uniti, una pièce di 50 minuti, incentrata su Magic Johnson e Larry Bird, nomi storici della pallacanestro, va a Broadway e ci rimane tre anni, con un tutto esaurito per sei giorni a settimana, sta a significare che il modo di raccontare lo sport esiste. Non può esistere solo in America. Certo hanno un milieu molto diverso nei confronti dello sport, ma noi abbiamo il calcio, il ciclismo, tante di quelle storie sportive da raccontare che secondo me non hanno niente da invidiare a quello che fanno nei paesi anglosassoni.
“La libertà è un colpo di tacco” è già diventato uno spettacolo teatrale, con Roberto Ciufoli per la regia di Manfredi Rutelli, il libro ha fatto il giro d’Italia e sta sfiorando il ‘caso letterario’. Un caso molto vicino al ‘colpo di tacco’ del titolo. Il colpo di tacco è il gesto tecnico più brasiliano e allo stesso tempo più imprevedibile. È la mossa che infrange la regolare sequenzialità di gioco; la smarcatura inaspettata di un compagno in un’area di campo arretrata. Certo non sempre così efficace, non sempre così riuscito, ma sempre bellissimo. Così come le storie che celebrano lo sport al di là della gretta competizione, la parte più pragmaticamente agonistica, e glorificano tanto la vittoria quanto la – molto più poetica – sconfitta.