Si dovrebbe tenere in considerazione l’essenza byroniana della poesia, nell’accezione del lemma che la critica storicizzata ha indicato, riferendosi ai personaggi delle opere che negli anni dieci dell’ottocento, coprirono le letture di mezza Europa, appassionando i lettori a quei caratteri così temerari e invitti, quando si parla di romanticismo. Molti sprovveduti, purtroppo legati all’idea di letteratura romantica come semplice ‘trattare d’amore’ (come se persino Ovidio e tutta la tradizione elegiaca fossero degni predecessori di Goethe e Keats) falsando il reale stato della storia letteraria. Molto scomodo infatti è inserire nelle categorie necessarie per la definizione di Romanticismo elementi come l’amor patrio, la militanza per la libertà, il recupero classicistico (oggi estremamente retrò, e quasi becero) dell’idea della bella morte, sul campo di battaglia, beneficiato dai calcificati versi di Menandro “Muore giovane colui che è caro agli dei”. Ma il romanticismo era soprattutto questo, in un periodo storico ovviamente decisamente diverso da quello attuale.
Lord Byron morì a soli 36 anni in Grecia. Era bellamente andato a combattere in un territorio non suo, per una causa non sua, per un popolo non suo; l’indipendenza della Grecia dall’impero Ottomano. Quasi per radicale mandato letterario, debito culturale nei confronti della civiltà che era sorta nei territori dell’Ellade, e che avevano dato all’occidente l’alba della letteratura. La sua morte non fu decisamente quella che lui stesso prospettava per i suoi personaggi; una febbre reumatica che non gli permise né di finire il Don Juan, poema satirico troncato al canto diciassettesimo, né tantomeno di veder indipendente la Grecia.
Di questo ha trattato David Riondino, al Teatro Poliziano, la sera del sette marzo, nell’ottima traduzione che lui stesso ha completato del poemetto, fino ad oggi rimasto solamente in lingua inglese, intitolato The Island, composto nel 1823, esattamente un anno prima della sua morte. La vicenda è quella del Bounty, dei ribelli della nave mercantile che disertarono il ritorno in Inghilterra per ricostruire nuova vita nelle isole pure e fascinosamente selvagge della Polinesia; quindi del marinaio Torquil, eroe byroniano, e della sua amante indigena Nehua.
Alternando la sua voce, con quella dell’ottimo Paolo Bessegato, Riondino guida l’immaginazione del racconto scandendo versi adattati ad endecasillabi sciolti, certe volte fin troppo audaci nella ritmica impropria delle dialefe e degli enjambement, non percepiti, nella maggior parte dei casi, dalla lettura dei due interpreti, sebbene l’epicità satirica della vicenda dell’Ammutinamento del Bounty fornisse tutte le scuse possibili ad andamenti più elastici nella canonica scansione prosodica. Il tutto in un palco da camera; due leggii sul proscenio, l’ensemble (Fabio Battistelli al clarinetto, Roberto Frati al sax, Augusto Vismara al violino, Rivera Lazeri al violoncello e Ivano Battiston alla fisarmonica) a coprire il centro del palco e il fondale, sul quale è proiettato in tempo reale il lavoro di Massimo Ottoni, che già aveva mostrato le sue superlative tecniche sand-art a Montepulciano, nel corso del Pass Key Art Festival.
Un produzione tutta poliziana, che fa onore alla Fondazione del Cantiere Internazionale d’Arte; le musiche originali, composte dal maestro Luciano Garosi, ottime per l’andamento dai toni epici/romantici del testo, sono state la conferma della validità istituzionale della struttura, capace di lavorare a produzioni degne di tournée nazionali.