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Jazzare nel teatro di prosa: Tacabanda

Jazzare nel teatro di prosa: Tacabanda

Una recensione a “Tacabanda” al Teatro degli Arrischianti

Gianni Poliziani interpreta un sassofonista Jazz che ricorda in un appassionato monologo la sua vita, composta di luccichii balenanti, lucenti periodi di splendore e di successo e di fetide stalle, momenti di profondo scoraggiamento e crisi, tipici dell’artista. Cosimo Valdambrini (nome del protagonista) riflette quella tracotanza – ma anche quella pietas – del grande eroe tragicomico, portatore di una testimonianza esistenziale imprescindibile. Giunto nel paesino di Chiusaldino, è costretto ad accettare un incarico in provincia, poiché sommerso dai debiti, sottomettendo alle esigenze esistenziali le grandi aspirazioni artistiche. Un flusso di coscienza – e di memoria – del protagonista ci regala immagini di sognante realismo, dagli anni delle bande paesane (il mistero delle bande paesane; un mistero composto di ottoni, pernacchie e amore per la musica), a quelli delle televisioni private degli anni ’80, le orchestrine jazz delle crociere e delle navi turistiche, le belle donne, le amicizie (le massime di “Franchino” sono citazioni memorabili che restano impresse, alla fine dello spettacolo) e tutti gli eccessi e le viltà della vita di un’artista.

tacabanda polizianiLa scrittura del testo, da parte di Manfredi Rutelli e Matteo Pellitti, è un inno all’onestà artistica, alla purezza del gesto creativo; alla musica o al teatro, che sono innanzitutto condivisione.  Le stesse condivisioni sono poi storie da raccontare, le quali alimentano il bagaglio di ricchezza che l’arte già di per sé traina nelle percezioni degli spettatori. Una vicenda che diventa, sciogliendosi, una confessione a cuore aperto, con il pubblico. Una grande dichiarazione d’amore per l’arte come strumento di ordine e sopravvivenza in mezzo al caos, un’arte che è innanzi tutto immersione totale nell’esistenza, voglia di vivere e soddisfazione pubblica, mai privata.

Gianni Poliziani destreggia i fraseggi verbali del monologo con l’abilità di un vero e proprio maestro di musica, cogliendo tutti gli accenti ritmici, le sincopi, gli eccessi di partitura e, perché no, anche le improvvisazioni, i fuori-schema che diventano fondamentali codici espressivi per stabilire un patto di fedeltà con la platea. Gianni Poliziani è bravissimo a mantenere il personaggio in un’aurea media tra il grande uomo di successo e il fallito, tra il donnaiolo e lo zitello umiliato, tra il trionfo e la sconfitta. Una linea mediana tra due opposti caratteriali, che pure rientrano nella composizione del monologo, tenuti insieme con coerenza virtuosa. Un personaggio, quello rappresentato da Gianni Poliziani, che oscilla tra l’antipatia e la tenerezza con lo stesso tono mimetico, in perfetto equilibrio.

Alle spalle del pubblico l’ottima orchestra, attentissima negli attimi soppesati delle entrate e delle uscite del testo, fornisce un repertorio jazz delle grandi occasioni; da Charlie Parker a Benny Goodman, il palco è sciolinato di atmosfere inglobanti, non si può rimanere indifferenti e non catapultarsi nella vicenda, ritrovandosene circondati. La musica che, va detto, non è semplice “cornice” ma entra nella narrazione, si fa suono diegetico. Risolve l’andamento del racconto in una pienezza coerente e piacevole.

ArrischiantiSm

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