Spesso dipende da come – e soprattutto da chi – siamo stati introdotti e abituati ai testi classici, il giudizio immediato che da spettatori diamo ad una riproduzione scenica. Lo si è notato sabato 17 gennaio, quando discordanti sono state le critiche all’uscita del teatro Poliziano, dopo che la compagnia dell’Arca Azzurra, storica istituzione di teatro popolare toscano, ha eseguito la sua replica de “Il Malato Immaginario”.
Lo spettacolo nella sua velata (e artefatta) ingenuità ha rispettato tutti gli elementi basici del teatro classico; e questo basterebbe per elargire commenti di encomio. Il perno critico che ha funto da nucleo per l’articolazione del discorso scenico che il regista Ugo Chiti ha intrapreso , è stato applicato sulla rispettosità e la gaudente fedeltà ad un’opera così carica di significati, aggiunti alla già di per sé valenza testamentaria nella produzione di Molière.
Ugo Chiti è uno dei demiurghi teatrali più rilevanti degli ultimi trent’anni. Un’autorità tutta nostra (toscano DOCG, oserei dire), formato e umanamente costituito entro la koinè del teatro popolare del granducato. Suo è il polso che ha guidato le scritture delle esperienze teatrali e cinematografiche più importanti del paese, oscillando dal mainstream alla sperimentazione e alla ricerca, lavorando con registi del calibro di Matteo Garrone, Ascanio Celestini e Michael Zampino, sfociando nei titoli sbanca-botteghino con Vincenzo Salemme e Giovanni Veronesi. Non ha mai abbandonato il cordone ombelicale con la “sua” Arca Azzurra, compagnia di repertorio che dagli anni ottanta regala perle ai cartelloni teatrali d’Italia.
Il suo “Malato Immaginario” è stato preciso e reverente. Una scenografia diminuita, costumi eloquenti e montaggi chiari e volti alla disposizione funzionale alla parola. Le modifiche sono state infatti essenziali, ridottissime. Il prologo della comédie ballet è stato infatti sostituito da un’inquietante scena onirica, unico tocco ‘arzigogolato’ nell’economia abbastanza lineare dello spettacolo.
C’è tutta la marca tradizionale toscana del teatro popolare, commisurata con la forza comica del testo classico originale. La compagnia, una delle ultime “di repertorio” rimaste in italia, ha una totale coscienza del mezzo e una guida sicura dei tratti scenici; la commedia è stata modulata senza esasperazioni dei toni, senza parodiare ancora più la già debordante marca farsesca presente nelle lettere lasciate da Molière. Ne consegue, non un appesantimento, bensì un ottimo scambio ritmico tra gli attori, una fluidità espositiva notevole. Perfetti i cambi di registro molieriani, dal meta teatro alla farsa, dallo spannung dell’agnizione alla tragicità monodica delle tirate di Argante.
La commedia espone il peggio di ogni essere umano, è il bastone virulento che tiranneggia sulle tracotanze degli uomini, per pareggiare gli strati della convivenza e ricordarci che tutti siamo esseri, che tutti siamo vivi, che tutti abbiamo difetti e prenderci in giro, coscienti di ogni singolo nostro limite, è il modo migliore per affrontare l’esistenza. Mai nessuno come Molère ha sposato questo spirito, immettendo una disamina profonda nella vita degli uomini, che mai come oggi necessita d’essere ribadita.