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“L’Ultimo Sesso al Tempo della Peste” con un racconto di Carlo Pasquini

“L’Ultimo Sesso al Tempo della Peste” con un racconto di Carlo Pasquini

“L’ultimo sesso al tempo della peste” è una raccolta di racconti curata da Filippo Tuena per la casa editrice Neo Edizioni, in cui sono raccolti più di 50 contributi da altrettanti autori che cercano di rispondere alla domanda: come è, o potrebbe essere, l’ultimo sesso prima della fine?

L’ebook è stato pubblicato al termine della fase di lockdown e ha conquistato il 2° posto tra le vendita nella classifica Bestsellers di IBS Ebook e un ottimo piazzamento tra i primi dieci su Amazon Italia. I proventi dell’intero progetto editoriale saranno devoluti al Centro Senologico dell’ospedale “G. Bernabeo” di Ortona ‒ ASL Lanciano-Vasto-Chieti.

“In questo scenario apocalittico, causa la costante preoccupazione per il futuro, poche sono state le attività ricreative – commenta il curatore del progetto, lo scrittore Filippo TuenaIn molti hanno cucinato e mangiato oltre misura. Altri hanno recuperato letture fondamentali. Gli operosi hanno tinteggiato casa. I più fortunati, infine, hanno fatto sesso. Un sesso diverso, stavolta, perché adombrato o sublimato dalla possibilità che potesse essere l’ultimo.”

All’interno della raccolta sono presenti anche tre autori del nostro territorio: Daniela Luciani, Alessandra Del Balio e Carlo Pasquini. È proprio il regista poliziano a donarci il racconto che trovate di seguito, pubblicato all’interno della raccolta, che potete leggere in anteprima. Il volume può essere acquistato nei principali store online o richiesto alla case editrice all’indirizzo: info@neoedizioni.it

Mi piacciono molto le fighe, sono divertenti e intelligenti

di Carlo Pasquini – Montepulciano, marzo 2020

«Mi piacciono molto le fighe, sono divertenti e intelligenti». Queste le parole di Venedikt che lessi prima di uscire e scendere le scale dopo sette mesi di puzzolente isolamento. Il palazzo era silenzioso. Avevo assistito a questa avanzata del silenzio sempre più sinistra e per certi versi indecifrabile. Forse erano tutti morti o evacuati senza che nessuno venisse a prendere me.
Le razioni arrivavano ogni tre o quattro giorni. Patate pifferate, palombo semi congelato, le stramaledette penne lisce, gallette e confettura di ogni gusto e tipo. Avevo provato a distillare qualcosa alla maniera di Venedikt ma non avevo che sapone per i piatti e ascorbato. Tabacco non ne portavano.
La tv da settimane non dava più aggiornamenti ma solo repliche di notiziari o telefilm americani. Una sera il glorioso Vixen con grandi tette spettacolari. Mi feci una sega. Mi venne bene. Poi la trasmissione si interruppe.
Facevo fatica a segarmi senza qualche rivista. Il pensiero si concentrava su Ghiaia e le nostre troiate. Chissà dov’era. A casa sua probabilmente.
Se ripensavo alla saliva dei baci o alle bestemmie che ci dicevamo per eccitarci, l’uccello mi diventava paonazzo ma durava poco. C’era sempre qualcosa che finiva per distrarmi. Quando arrivavo tutto si esauriva in poche gocce dolorose.
La strada è vuota. Sto accorto. Non voglio finire di nuovo in casa con la porta imbullonata al 4° piano. L’aria è tiepida e profuma di gelsomini. Non ha niente di malsano. Il cielo si abbassa imbrunendo. Una bella giornata porca.
Mi riparo dietro a un ontano. Vedo passare una auto nera a tutta manetta. Poi, mentre provo a scavalcare le linee del tram, una camionetta dei carabinieri a passo d’uomo mi accappona la pelle. Mi butto per terra. Poco dopo uno sparo. Chissà dove e contro chi.
Mi rialzo e vedo un distributore di sigarette. Mi avvicino anche se è un rischio. Non è rimasto niente. Nemmeno una busta di Machorka mio adorato Venedikt.
Le cancellate della Metro sono chiuse ma qualcuno ha cercato di forzarle. Forse c’è gente dentro. Gruppi di sbandati.
Mi si avvicina un cagnolino e mi viene un colpo perché non l’ho sentito arrivare. Puzza. Cerco di dargli un calcio ma lo manco. Che merda che sono. Il cagnetto si riavvicina. Deve essere proprio disperato. Lo seguo non so neanche perché. Entra nel giardinetto di un condominio. Il cancello è aperto. Le finestre tutte spente meno una. D’un tratto lo vedo. Un corpo. Un cadavere. Entro e mi avvicino. Deve essere morto da un po’. E’ rigido e puzza. Mi porto il fazzoletto alla bocca e al naso. Gli frugo le tasche dei pantaloni. Estraggo il portafoglio e mi allontano. Non spero di trovare dei soldi che non mi servirebbero ma un po’ di fumo o bamba o eroina. Trovo solo i suoi documenti e qualche biglietto giornaliero. Mi vergogno. E’ uno stato d’eccezione, mi dico.
Attraverso il viale. Non vedo nessuno. Casa di Ghiaia è due isolati più avanti. Mi fermo. Ho l’affanno. Sono settimane che ce l’ho. Per terra, sepolto da foglie fradice, una specie di volantino. Provo a leggerlo ma poi lo getto subito. Mi prude la fava. Sarà perché a casa è rimasto solo sapone di marsiglia. Il cielo si è abbassato. Sento all’improvviso un altro sparo. Molto vicino questa volta. Mi butto in terra di nuovo e mi viene da pensare a mia madre che è morta da tanto gettandosi da un ponte. Non versai una lacrima. E me lo rimproverai per anni.
Faccio l’ultimo tratto con il cuore in gola e un’arteria mi pulsa accanto come un campanello zoppo. Il palazzo è buio. Le sue finestre però sono dall’altra parte. In un attimo sono dentro al cortile e le vedo illuminate come semafori verdi per la mia immensa smania. Dolce visione d’amore. Dolce struggimento e previdente non cantar vittoria. Oh Venedikt assistimi con una delle tue visionarie e micidiali bevute. Che io sia l’oro che ti riscalda le vene congelate e tu il mio sogno carnale.
La porta mi fa entrare. Salgo frenando la fretta. Non voglio commettere sbagli. Nonostante il condominio abbia visto tempi migliori la prima rampa di scale, con la guida rosso mattone, mi porta morbida verso la felicità. Ma già la seconda e la terza sono sporche come non lo sono mai state. Macchie indecifrabili che si sono unite al tessuto della guida o al marmo laterale di un’eleganza completamente perduta. Ma la mia gioia è trattenuta e avanza cauta di gradino in gradino, di fiducia in fiducia.
Il portoncino di Ghiaia. La sua maniglia e i suoi denti d’ottone chissà quante volte sfiorati o lucidati. Il suo cognome renano, sposato dalla nascita a quei sassolini santi del suo nome di battesimo luterano.
Suono. Ma il suono non si accende ne si colora. Non c’è luce. Non c’è.
Sento l’ascensore salire o scendere. Non si capisce dalle funi d’acciaio. Mi nascondo sul lato delle scale. L’ascensore scende e non mi vede nessuno.
D’un tratto, come un maglio, lo sento. Lo sento quell’obbrobrio di morte, quell’odore dolciastro e feroce. Mi conquista le narici come un rettile velenoso. Comincio a bussare ad ogni porta. Gridando, supplicando.
Al primo piano mi apre un ometto tutto baffi. Quei i baffi sono spaventati e la moglie sul fondo allarmata nella sua tetra penombra. Sale con me l’ometto e si porta un po’ d’arnesi da scasso. Un martello. Scalpelli. Un trapano con prolunga. Una sega circolare. E’ abruzzese e tra il dialetto e la concitazione non capisco una parola fino a che la porta si spalanca e il rorido miele ci invade le froge, gli occhi e il cervello. L’appartamento è illuminato dalla luce verde dei lampioni di strada ed entro con cautela chiamando mentre l’abruzzese insiste col dire che è successo qualcosa. Lui quell’odore lo riconosce. Lo fermo in tempo prima che dica altro e lo prego di andarsene mettendogli in tasca una banconota. Richiudo la porta alle mie spalle e rimango a lungo fermo, in penombra. Il respiro già sa dell’amore mio, di quello zucchero infallibile che copre ogni piastrella del mio corpo. Amata Ghiaia, placcata d’oro, mio tempestoso destino e prua della mia nave tremante. Angelo di schiuma che mi mondava il viso colmo di eccitazione mentre la penetravo senza sosta come un topo innamorato della sua topa. Cigno tra i cigni, culo rorido del mio sperma celeste.
Vedo – di là, sì di là – le tue gambe posate in eleganza e ormai verdi anch’esse come la luce dei lampioni. Arrivo fino a te, disgustato dall’afrore che incredibilmente mi eccita. Trattengo il vomito che in altre occasioni ti avrei potuto proporre come summa di estremo amore. Appoggiato allo stipite della porta ti vedo nuda e per niente atroce ma addormentata e bella. Un crisantemo poggiato di sbieco sulle pupille della mia letizia.
Morta. Senza riprova, senza domande. Morta.
Se ora mi chinassi incontro al tuo volto potrei smaniare. Lo conosco bene in ogni sua piegatura. Allora, così appoggiato, ruoto sulla destra quel tanto che basta per appoggiare l’uccello sul legno. Vedovo ma innamorato che senza fatica si appoggia e dopo un paio di ricordi di te rimette a sussulti tutto quello che per te aveva conservato di serico amore, di nubi e di vento.
Il virus mi guarda e non dice niente. Sento la mano di Venedikt che mi prede l’avambraccio e mi tira via per sempre. ###

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