Si è tenuta presso la sede di Canvas Hub aps, Centro di Innovazione Sociale, la restituzione dei dati del questionario sottoposto ad oltre 150 studenti e alle studentesse di classi seconde e terze superiore, fase finale del progetto “Le idee si possono discutere, le persone si devono rispettare. Montepulciano vs Cyberbullismo”.
A parlare degli argomenti posti al centro del progetto, oltre ai professionisti di Canvas Hub, Roby Parissi, Malika Bamaarouf e Sara Molinari, con cui avevamo precedentemente parlato, anche cinque ospiti d’eccezione. Valeria Fonte, content creator/divulgatrice femminista e scrittrice, Lyre, comedy content creator dal 2001 con un Master in Gender and Women studies, Lucrezia Marino, psicologa, psicoterapeuta e sessuologa, Marta Pietrelli e Marianna Martini – Fondazione Mondo Digitale. , hanno discusso dei dati risultati del questionario sottoposto ai ragazzi nella prima fase del progetto, riuscendo a creare un momento di analisi interessante per tutti i presenti.
Prima di parlare dei dati, ricordiamo gli argomenti trattati nelle prime due fasi del progetto con i ragazzi: cyberbullismo (ogni gesto che lede la dignità di una persona via web), revenge porn ( o per meglio dire: condivisione non consensuale di materiale intimo), Body Shaming (la pratica di offendere qualcuno per il suo aspetto fisico). Il progetto ha trattato queste tematiche attraverso varie fasi precedentemente analizzate e spiegate nel precedente articolo.
Possiamo ora parlare di dati e percezione rispetto a questi tre temi fondamentali insieme a Roby Parissi e Malika Bamaarouf:
Partendo dal “cyberbullismo” alla domanda “Quale di queste azioni rappresenta per cyberbullismo?” Il 22,7% dei ragazzi non ritiene che “sparlare di qualcuno per danneggiare gratuitamente e con cattiveria la sua reputazione” sia definibile cyberbullismo. Un dato che insieme al 29,9% di ragazzi che crede che “spedire ripetuti messaggi insultanti mirati a ferire il destinatario” non sia cyberbullismo, ci fa comprendere come la definizione di un termine sentito e risentito tra conferenze e giornate di formazione, non sia in realtà totalmente conosciuto ai ragazzi.
Addentrandoci nell’analisi del fenomeno legata ai soggetti protagonisti del questionario notiamo che l’87,5% risponde di “non aver commesso atti di cyberbullismo”, ma il 19,5% se si tratta di averlo subito risponde, in una scala da 1 a 5, di averlo subito 1 (cioè …)
Ma i dati che fanno incuriosire riguardano la consapevolezza dei soggetti interessati quando si parla delle loro azioni all’interno del web e dei social. Infatti il 26,6% dei ragazzi ritiene che “il proprio comportamento non venga per niente influenzato dalle azioni che compie e subisce nel mondo virtuale.” Risposta che in qualche modo ci sorprende anche solo pensando a un fenomeno ormai diventato conosciuto ai più come la FOMO (fear of missing out) o al collegamento evidente tra l’aumento di disturbi del comportamento alimentare e l’uso sempre maggiore dei social network.
Proseguiamo con l’analisi dei dati sulla percezione del “revenge porn”, dove il 42% delle persone “non ritiene che divulgare per scherzo immagini dai contenuti espliciti senza consenso sia definibile come tale”. Il 33,6% “non crede che divulgare immagini esplicite senza il consenso della persona su chat di gruppi e/o private, sia revenge porn”. Notiamo però come il 64% dei ragazzi tenuti a rispondere al questionario ha confessato di “avere paura nel diffondere immagini private on-line”.
Come riusciamo a fare coesistere questi dati? Come si può avere paura di diffondere le proprie immagini private se allo stesso tempo si pensa che divulgarle senza consenso non sia un gesto perseguibile penalmente?
Ciò che risulta evidente durante tutta l’analisi del questionario è che mettersi nei panni della vittima è sempre più facile di mettersi nei panni del carnefice, ma senza la consapevolezza di quali comportamenti siano effettivamente revenge porn o cyberbullismo come si può riuscire a non diventarlo?
Delle iniziali risposte a queste domande si potrebbero ricondurre alla mancanza di consapevolezza nei ragazzi. Il 42,2% non ha infatti paura di vedere condivisi senza il proprio consenso i propri materiali intimi, ma è un dato reale o un dato fittizio? Se fossero vittime di un gesto del genere ne sarebbero veramente immuni? Bisognerebbe capire quanto sono effettivamente consapevoli di ciò che comporta avere delle proprie immagini private online, non tanto oggi, dopo qualche ora, ma a mesi e anni di distanza. Come ci si sente ad avere le proprie immagini nel web a disposizione di tutti senza la possibilità di riappropriarsene?
Ma poste tutte queste domande, cosa si può effettivamente fare per venire incontro ai ragazzi e risolvere queste problematiche? Ci rispondo Roby e Malika…
“Una soluzione potrebbe essere quella di provare a coinvolgere i ragazzi in attività pratiche, hanno bisogno di trovarsi in quelli che definiamo “case scenario”. Essere immersi in prima persona in una vicenda ti dà la possibilità di impersonare sia la vittima che il carnefice, empatizzando con chi vive e potrà vivere quella dinamica. La promozione di attività laboratoriali e di attività legate alla capacità di comprendere che tipo di emozioni vengono suscitate da questa tipologia di atti è forse una delle cose più efficaci che si possa fare.
Dall’altro lato è sicuramente essenziale una formazione continua non solo per gli enti specifici del settore e la scuola, ma anche per i genitori, coloro che solitamente rispondono al primo richiamo d’aiuto, ma che spesso non hanno i mezzi per risolvere il problema o anche solo per comprenderlo. Cosa utile sarebbe introdurre all’interno del momento di educazione civica, e quindi del programma scolastico, i cinque punti che fanno parte delle linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo.
In più, potremmo focalizzarci sul dare vita a momenti di peer education, dove i ragazzi possono parlare tra di loro, creando momenti di informazione ed educazione. Parlare all’interno della proprio generazione aiuta a fare arrivare questi messaggi non solo in maniera informativa, ma in modo sincero, veloce e soprattutto duraturo.
Per riassumere, le azioni preventive utili non sono azioni che fanno leva su un’unica organizzazione o su un luogo in particolare, ma sono quelle che affondano le proprie radici in un approccio di rete. Abbiamo bisogno di progettualità volte a fare acquisire strumenti di lettura e comprensione dei fenomeni a tutti coloro che potrebbero rappresentare delle figure di riferimento per le vittime o per i soggetti coinvolti. Per farlo è sicuramente necessario dare una continuità a questi progetti.”
Passiamo al “body shaming”: il 52,2% ritiene che “il body shaming possa essere ritenuto tale solo se esercitato verso persone conosciute”, in caso contrario non viene ritenuto come tale. Il 53,1% crede che “il body sharing non sia criticare il proprio aspetto”.
Ma da dove provengono questi dati? Anche qui da una mancata consapevolezza?
Qui oltre a una poca comprensione del fenomeno (il 41,4% non crede o crede poco che la visione del proprio corpo sia influenzata dalla visione di altri corpi) ci dobbiamo focalizzare su un retaggio culturale che colpisce anche le generazioni più giovani e che forse ci permette di fare chiarezza anche sui dati dei punti precedentemente trattati. Dai dati è infatti emerso che il body sharing viene maggiormente percepito su donne e in generale su persone LGBTQ+. Ma come si può cambiare tutto questo?
“Parto da una riflessione importante: i ragazzi hanno espresso una volontà nel comprendere le cause del perché percepiscono in questo modo il proprio corpo. Questo vuol dire che spesso non sono consapevoli, e qui torniamo al tema principale, cosa influenza la percezione di sé e degli altri.
Un’altra cosa su cui i ragazzi chiedono di essere informati ed educati sono le conseguenze che vivono le persone che subiscono tali atti. Non sono inconsapevoli per una mancanza di interesse, anche perché la volontà di comprendere tali atti è mossa proprio dalla possibilità di riuscire a intervenire e affrontare gli effetti sia psicologici che fisici di tali azioni.
Uno dei problemi maggiori sta nel fatto che loro stessi, se fossero i protagonisti di tali atti non si sentirebbero sicuri nell’attuare la denuncia: la mancata fiducia nelle autorità più un’abitudine all’astensionismo di ogni genere sono due problemi fondamentali da affrontare.
Spesso se spettatori di alcuni gesti tendono a “lavarsene le mani”, come anche da loro dichiarato, soprattutto perché hanno perso la fiducia negli enti responsabili della loro sicurezza. Un ragazzo nel momento in cui sa che se denuncia un episodio di bullismo non cambierà niente, ma anzi, probabilmente la sua posizione sociale si aggraverà, con quale spirito e volontà può decidere di denunciare?
Vorremmo soprattutto sottolineare l’importanza di un’educazione all’emotività e un bisogno di eliminare in maniera drastica la cultura maschilista che ci circonda. Andando ad analizzare la questione in maniera totale ci rendiamo conto di come il retaggio culturale sia intrinseco anche nel momento in cui andiamo a definire il soggetto coinvolto come “vittima”. Anche parlando con i ragazzi è emerso che, se la vittima di body shaming appartiene al genere maschile, allora appaia avere meno diritto a definirsi tale. Allo stesso tempo le azioni svolte contro il soggetto assumono minore importanza. Qui si parla quindi di un problema culturale, dovremmo riuscire a decostruire l’idea per cui è giusto giudicare i corpi e le azioni altrui.”
Concludiamo quindi puntando l’attenzione sugli aspetti emersi maggiormente, nella speranza che questa prima analisi possa portare a un ascolto aperto delle esigenze e delle paure dei ragazzi, così da riuscire a creare la rete di conoscenza e aiuto prima detta. Ai ragazzi mancano gli strumenti sia concettuali che esperienziali che emotivi per riconoscere questi fenomeni e di conseguenza fanno fatica a comprendere chi sono gli enti e le persone con cui dovrebbero confrontarsi relativamente a queste tematiche. Se da una parte i ragazzi provano a parlarne con i genitori, sconfiggendo la vergogna, dall’altra le figure genitoriali non sono sicuramente capaci di offrire soluzioni o semplicemente di riconoscere il fenomeno. Le persone che potrebbero offrire più possibilità di aiuto, sia grazie alle competenze, che grazie al tempo che passano con i ragazzi, cioè il personale scolastico, non sono riconosciuti come enti affidabili con cui confrontarsi.
Problematiche come il cyberbullismo, non affondano le proprie radici in un contesto di vita quotidiana e limitata, ma le affondano in un non-luogo: il web. I ragazzi e i genitori spesso riconoscono in una caramella offerta un pericolo ma non lo vedono in una rete illimitata e globale di informazioni accessibile a tutti. Forse prima di interrogarci sulla consapevolezza che hanno gli adolescenti sulle proprie azioni e sul proprio corpo dovremmo comprendere come riuscire a dare vita a una rete sociale e culturale che possa offrirgli proprio quella consapevolezza di cui mancano.