Ormai, come un rituale, come un’incisione celebrativa a coronare il luglio sarteanese – e scandire oltretutto il cartellone di prosa del Cantiere Internazionale d’Arte – lo spettacolo al Castello di Sarteano torna, con il suo linguaggio ormai codificato dagli anni di labor limae operata dalla gloriosissima Accademia degli Arrischianti, ad impiantare la magniloquente tradizione dei classici, i colossi della storia letteraria, nel racconto divulgativo. Ormai da anni (dagli Uccelli di Aristofane a La Tempesta di Shakespeare, fino ad Alice in Wonderland) una fine cernita di altissima qualità viene elaborata dalla coppia Gabriele Valentini e Laura Fatini, per essere consegnata al pubblico indistinto dell’estate nel borgo toscano. Si ricalibra ormai la conoscenza del teatro alla portata di tutti, regolando gli habitus del varieté, dell’oscilloscopio drammatologico, la difficile conquista dei nasi più difficili, dei gusti più altezzosi, snobistici, attraverso una certosina elaborazione della candescenza del nazional-popolare (che spesso, in passato, ha disequlibrato la produzione dei due drammaturghi, ora verso l’impiccio della bassa caratura pop, ora verso l’eccesso di ricerca, sfiorando l’oscuirità inintellegibile dei valori testuali). Quest’anno, oggetto dell’elaborazione dello spettacolo, è il capolavoro dell’American Renissance, la grande cavalcata epico-biblica di Herman Melville, “Moby Dick”.
Una scelta decisamente non facile, rispetto alle precedenti opere, che si prestavano ad un divertissement, ad una marcatura dell’entertainment estivo. Essendo l’enorme fascio narrativo del volume di Melville impossibile da ridurre a due ore di spettacolo, spesso il testo ricorre alla prosa originale, facendo perno sul personaggio di Ismaele e sul suo cambio tra dialogo e narrazione, tra qui ed ora e ricordo. Impossibile sarebbe stato offrire la stessa profondità, la stessa forza semiosferica, senza lasciare che le letture integrali dei passi del romanzo facessero da rubrica alla messa in scena.
Il plot viene correttamente rispettato; Ismaele (Guido Dispenza), che tra azione e narr-azione guida la storia nei suoi viluppi e sviluppi, si imbarca nel Pequod, una baleniera che fa da cornice ai geniali personaggi che la abitano; da Stubb (il ridente ufficiale fumatore di pipa, interpretato da un hemingwaiano Francesco Storelli) a Starbuck, il coscienzioso e razionale secondo ufficiale, interpretato da Pierangelo Margheriti, antagonista dell’imponente Gianni Poliziani personificante il leviatanico Capitano Achab.
Rivisitazioni interessanti per il capitano Peleg, che invece d’essere un vecchio distinto selezionatore della ciurma del Pequod, diventa una macchia piratesca meravigliosa, interpretata da un geniale Giordano Tiberi, gobbo e claudicante, stemperante il peso drammatico dell’economia generale della mise en scène. Rivisitato anche Elia, il profeta dell’embargo, figura auerbachiana biblica di rimando storico, che viene rivestito da un’austera presenza femminile, Giulia Rossi, invece che dal personaggio misterioso impersonato del romanzo.
L’Ismaele di Guido Dispenza è forse ancora più ingenuo e spaesato di quello cui appartiene la voce narrante del testo originale, forse troppo, sfociante spesso nello stridio dello switch ardimentoso tra le parti narrate (ora da voce fuori campo ora con cambi segmentati intramezzati alle azioni degli altri attori) che rivelano profonda maturità e onniscienza – appesantite anche dal buon lavoro di Guido Dispensa sull’invecchiamento della voce, raucedine e piegamento diaframmatico – e blandizia nelle parti dialogiche.
La scenografia, buona nelle intenzioni e negli effetti, trova un’apertura di respiro notevole nella partenza del Pequod, quando i marinai tirano su le vele, alzando fino ai vertici del castello il quadro scenico. Tutto questo instaura una cornice notevole per le scene corali, negli assalti alla balena bianca, nella catastrofe finale, sommessamente permeanti tutta la durata dello spettacolo nelle controscene finissime, che accompagnano le singole parti. Una “Zattera della Medusa” in rallenty, con dialoghi carichi di rimandi mitologici, biblici e ancestrali, spioventi dall’irriducibile prosa melvilliana (in traduzione di Cesare Pavese).