Sabato 13 Dicembre è andato in scena al Teatro Poliziano il FALSTAFF, per la regia e l’adattamento di Andrea de Rosa. Con Giuseppe Battiston, Gennaro Di Colandrea, Giovanni Franzoni, Giovanni Ludeno, Martina Polla, Andrea Sorrentino, Annamaria Troisi, Elisabetta Valgoi, Marco Vergani. Con la produzione della Fondazione del Teatro Stabile di Torino e della Fondazione Emilia Romagna Teatro. Tommaso Ghezzi riporta la sua recensione.
L’etimo della parola fool è forse uno dei codici sfruttati per la composizione del logos scenico del Falstaff di De Rosa; a metà tra lo “scemo” e il “pazzo”, la parola in ambito shakespeariano, indica quei particolari personaggi che, vestiti da buffoni ed attraverso formule linguistiche buffe – appartenenti al registro comico – si prendono burla delle classi sociali più alte, ma allo stesso tempo rivelano, nel loro folleggiare scenico, assolute verità e pensieri nascosti dei protagonisti. I fools toccano con l’arma irreprensibile dell’ironia persino i più profondi temi filosofici. Ed è quello che con un’acrobazia sciistica (di slittamento cioè sulla gelida fissità della traduzione, per quanto buona, di Nadia Fusini) De Rosa agisce portando in scena il suo collage tra il Falstaff dell’Enrico IV, quello delle “Allegre Comari di Windsor” e quello del libretto di Arrigo Boito per l’opera di Verdi, con l’aggiunta molto azzeccata e sempre gradita di tranci dal Nietzsche dello “Zarathustra” e il Kafka della “Lettera al padre”. Molte epifanie paratestuali sono sicuramente derivate dal capolavoro di Gus Van Sant “My Own Private Idaho”, libero adattamento cinematografico dell’Enrico IV (in Italia noto con la pessima traduzione “Belli e Dannati”, non per l’estetica del titolo di per sé, quanto per un’ingannevole connessione con il romanzo omonimo di Francis Scott Fitzgerald).
Giuseppe Battiston oscilla tra il fool comico e il tragico. Tant’è che lo stesso personaggio prende le vesti di Enrico IV morente, nella parte finale. Il cambio-personaggio è un conflitto tra le generazioni; nello stesso calderone vanno sia il Falstaff che l’Enrico IV, così opposti, ma così ingiustificati al giudizio verso i figli, vista la loro appartenenza ad un contesto alieno dalla prole. Il vero protagonista dell’opera di De Rosa è infatti Hal, il successivo Enrico V, interpretato ‘benino’ da Andrea Sorrentino, che si ritrova a doversi far carico delle colpe di entrambi i suoi “padri”.
Il lollardo John Falstaff, che ricosse un così grande successo nelle prime rappresentazioni elisabettiane di William Shakespeare dell’Enrico IV, tanto che lo stesso autore fu costretto ad allargargli il ruolo e farlo rivivere – si dice per volontà della stessa regina Elisabetta – in “Le allegre comari di Windsor” e, infine, a farlo morire fuori scena nell’”Enrico V”, pare per evitare che la ‘macchietta’ invadesse troppo le successive produzioni, è il coadiuvante del collage di De Rosa, in un ambiente molto becero e Rock (l’osteria della Giarrettiera del testo) nel quale si gozzoviglia in un trionfo del corpo sullo spirito, fino ad un’auto agnizione corporea dei personaggi che – improvvisandosi attori, con le percezioni annebbiate dal vino – forniscono una personalissima e molto contemporanea idea di teatro; giocando sugli scarti di registro tra i vari testi collazionati, danno alla funzione scenica una pura cifra corporea che basta a dare senso alle cose.
Elogio del corpo e della libera carnalità è quindi uno dei temi centrali della prima parte. La vittoria nietzscheiana del corpo sull’anima. La potenza della carne e del piacere materiale, opposto ad una immobile e indefessa sudditanza alla ragione. La seconda parte, invece, incalza sul rapporto tra i poteri, tra generazioni, il dissidio necessario tra padri e figli, celatamente forzato da una non ben visibile sacra sindone sullo sfondo, forse volta a rincarare la retorica del “figlio che paga per il padre”.
Un ottimo uso dei suoni, dei microfoni e delle variazioni recitative acutizzano l’effetto di straniamento nello spettatore. I registri che cambiano dal comico al tragico in un tumulto neopsichedelico e postmoderno riempiono anche i particolari di profondissima significazione. La rivisitazione ha ragion d’essere nella mise en scene, nella corrosione interna della maniera teatrale, e in questo tutta la compagnia ha ben gestito il greve plesso testuale shakespeariano. Perfetti i tempi e i ritmi del personaggio di Falstaff/Carlo IV, circondato da alcune presenze traballanti. In ogni caso le incertezze recitative (restanti comunque entro la dignità professionale di un produzione così importante) sono comunque coperte dalla sovrastante bravura di Giuseppe Battiston.