Una residenza teatrale al tempo dei teatri chiusi. La prima cosa che mi viene da chiedere, da teatrante, è “com’è?”. Forse sotto c’è un “com’è possibile?”. Non rientravo in una platea da un anno, poi è arrivata la Compagnia IfPrana in residenza al Teatro Mascagni e (in sicurezza) sono corso a parlare con loro.
Quando ho attraversato la porta della platea, non sarà una sorpresa, mi sono emozionato. Però avevo anche paura: non del contagio (ripeto, era tutto in sicurezza), ma di non sapere più come si vive il teatro.
IfPrana è arrivata a Chiusi per dare vita a uno spettacolo su Glenn Gould, compositore e musicista canadese che all’apice del successo ha deciso di non fare più esibizioni pubbliche, convinto che modificassero il suo modo di suonare. Così ha rinunciato al rapporto di vicinanza col pubblico, si è concentrato sulle registrazioni in cerca di una comunicazione più sincera, ma meno diretta.
È un anno che il rapporto tra attori teatrali e pubblico manca, e allora Glenn Gould permette di indagare quanto quel rapporto sia importante per creare il teatro, quanto lo sguardo esterno e la condivisione modifichino un’esperienza artistica.
La residenza teatrale al Mascagni è la nascita del progetto e, come tutte le residenze, prevedeva anche dei momenti di incontro con la cittadinanza, che però non si sono potuti svolgere. Io sono andato per parlare di questo: come è cambiato fare una residenza teatrale da prima della pandemia? E di questo abbiamo parlato e tanto: l’entrata in teatro che è diventata un momento nostalgico, rimettersi al lavoro su un testo senza ricordarsi quanto fosse mancato. Però abbiamo parlato anche di Gould e di quello che la sua scelta può dirci del teatro, e anche di questo abbiamo detto tanto. Non posso riportarvi tutto, staremmo qui a leggerci per una giornata intera.
Allora riunisco in un discorso unico le mie domande e le voci di Marco Brinzi, Caterina Simonelli e Andrea Cosentino. Ed ecco una riflessione su teatro e mercato.
Gould sceglie di vivere d’arte ma senza soccombere alle logiche del mercato. Lui era un musicista, ma la sua esperienza fa sorgere la domanda se questo sia possibile nel teatro.
Innanzitutto è necessario chiedersi se c’è la volontà di entrarci, in quelle logiche di mercato. Ci sono delle operazioni che funzionano meglio a livello commerciale, come quelle incentrate sui personaggi televisivi, ma sono basate sulla comodità: non mettono in discussione né chi le fa né chi le guarda. In IfPrana non c’è la volontà di pensare un prodotto in funzione del mercato: c’è la creazione, prima, e solo successivamente si pensa a come vendere ciò che è stato fatto. È necessario fare dei compromessi, a volte, ma non sulla sostanza. Magari si deve optare per un attore solo invece di quindici, ma il teatro di IfPrana è un atto di resistenza.
D’altra parte il mercato nel teatro non esiste davvero. È, anzi era drogato da scambi, dalla politica. E poi cosa vuol dire essere indipendenti in questo campo? L’artista più indipendente che ci può essere è quello che cambia padrone da una produzione all’altra, quindi diventa una sorta di libero professionista che si infila tra le maglie di una rete sfilacciata. Ma non c’è un sistema contro cui combattere. Anche chi sta all’apice è messo male: i ricchi sono poveri, i potenti sono disgraziati.
Semplificando le cose, in questo anno di fermo molti teatri e teatranti si sono trovati economicamente meglio di prima. Chi ha i finanziamenti sta guadagnando perché non deve nemmeno far finta di produrlo, il teatro. Chi non li ha in molti casi guadagna di più coi miseri ristori di quando era in attività. È paradossale: come è possibile che si stia meglio ora di quando il teatro si faceva? Se questo anno di blocco servirà a qualcosa, ci farà capire che le cose vanno cambiate. C’è anche chi non vuole che le cose cambino, ovviamente, quindi bisognerà vedere quale linea prevarrà.
Comunque il teatro è da sempre un settore che si barcamena. E chi lo fa si barcamena altrettanto. Questa cosa, alla fine, mantiene giovani e vivi, perché è sempre una sfida: per chi si sta lavorando? Come si possono raggiungere le persone?
Non c’è mai appagamento, e questo è triste. Però è anche una buona premessa per avere vitalità, quella delle cose che cercano senso senza mai trovarlo. Il teatro non crea cose già confezionate, come invece succede nel mainstream, per esempio con le serie Netflix: sono bellissime, ma sono tutte più o meno la stessa cosa. C’è una griglia con regole ferree di creazione, non ammette errori. Il teatro invece sbaglia continuamente, fa cose discutibili, ma la discutibilità ti garantisce che la cultura ha ancora qualcosa da dire. Se non se ne può discutere non ha senso…
Lascio i punti di sospensione, perché il discorso non è finito, se mai può finire. Sono uscito da quella sala con tanti spunti, tante domande, poche risposte. Un po’ come in un bello spettacolo, o come se fossi stato parte della residenza teatrale. Ero entrato con la paura di non saper più vivere il teatro, ma quello che ho provato mi ha detto che lo so fare ancora. Lo sappiamo fare tutti, credo, solo che in questo silenzio rischiamo di dimenticarcelo.
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