Tommaso Ghezzi, il nostro nuovo blogger, commenta il secondo disco di Carlo Barlozzo “Rovaniemi”, o letteralmente “cumulo di pietre”.
Carlo Barlozzo pubblica il suo secondo disco, dopo averci fatto assaggiare due inediti estemporanei (“Pesce d’Aprile” e “Un caffè e una brioche”) che già lasciavano intravedere una diversa attitudine rispetto a quella a cui ci aveva abituati, un’anima diversa in fase di perfezionamento. Il cantautore chiancianese è infatti oggettivamente cresciuto; e non solamente per addizioni temporali necessarie. Non è semplicemente l’esperienza lungo i percorsi definiti dallo scorrere delle emozioni e delle relazioni. Non sono solo i suoi 30 anni a donare autocoscienza e orientamento alla sua scrittura. La crescita è dettata dalla battitura di nuovi corsi, laddove non ci si aspettava mai di vederlo passare. Il sentiero dei nidi di ragno di Carlo Barlozzo è una rilettura totale dei sistemi compositivi, una ricerca profonda nei motivi e nelle urgenze che lo hanno portato alla stesura e alla registrazione di nuove canzoni.
Per chi lo seguiva dal suo esordio (“La meta” del 2011), “Rovaniemi” è una piacevole rivoluzione che toglie il grigiastro velo opaco da un’anima solidamente rock, per troppo tempo obbligata entro vesti strette, chiusa negli uffici legali a seguire gli ordini degli avvocati durante i praticantati. Totale è la svolta percettiva di ogni singolo elemento canzonettistico, prima così classico e pulito, così composto nella sua attenzione al rispetto celebrativo della tradizione cantautorale italiana, adesso al contrario così sporco nella scelta dei suoni, così impuro nel suo porsi al pubblico come cantautore pop.
I precetti musicali che sembravano imporsi nella composizione dei brani de “La meta” sembrano in gran parte superati. Il disco precedente è però fondamentale proprio perché fornisce uno spunto per la comprensione del nuovo lavoro, una modalità di ascolto differente; l’orecchio abituato alla canzone italiana classica è quello sul quale l’azione graffiante dell’impianto concettuale di “Rovaniemi” agisce con maggior efficacia. Per questo, forse, il titolo del disco è intelligentemente collocato ad esempio sintetico dell’intero lavoro. Come si legge sulla seconda di copertina, il nome Rovaniemi in finnico, significa “cumulo di pietre” o “roccia”; è il “villaggio di babbo natale”, quindi antonomasia di purezza infantile e bontà, che rivela altresì un’etimologia ruvida e – letteralmente – rock. Il concept è essenzialmente questo; parlare di sogni, di tensione alla felicità, attraverso i sassi più appuntiti, le rocce più grezze e ruvide.
Il disco si apre già in maniera musicalmente molto eloquente con “Le gabbie sono aperte”, come una liberazione dalle reti che definivano i vecchi perimetri. Una pura atmosfera western sergioleonica riempie l’incipit del disco da cui emerge, dopo una galoppata ritmica, “I cani”, seconda traccia e canzone-manifesto dell’opera.
Carlo Barlozzo dopo due anni non canta più l’amore ingenuo e superficiale, come il canone della canzone d’amore italiana esigeva, ma ci parla delle imposizioni con cui ha avuto a che fare, sia dentro l’ambiente musicale sia soprattutto fuori. La penna è più tagliente, più lapidaria, quasi arrabbiata. Le rime sono più decise anche se imperfette, sono più funzionali alla metrica della melodia sebbene asimmetriche. La maturità è determinata da una precisione irrazionale delle parole, che bucano come rocce la parete musicale con effetti tutt’altro che spiacevoli e scontati.
I testi di Carlo Barlozzo hanno acquistato una coscienza poetica superiore, una posizione definita e a suo modo sovversiva nei confronti dei canoni della canzone pop. Se ne “La meta” appariva la cover di “Una lunga storia d’amore” di Gino Paoli, simbolo puro della tradizione cantautorale di una volta, composta e pulita, in “Rovaniemi” appare, per contrappeso, “Giovanna Dice” di Federico Fiumani, emblema del rock underground italiano indipendente, antitetico rispetto al precedente.
Si ha la percezione di un “io narrante” che tenga insieme tutte le canzoni, non tanto prendendo la parola e dicendo “io” (“La terra vista dall’alto” e “Rovaniemi” e “Sotto il ponte” sono al contrario deliziose colate liriche impersonali), quanto permeando l’unità del disco di precisi caratteri e riferimenti; il protagonista di “Rovaniemi” è un impiegato, un pendolare – come per l’appunto esprime benissimo il titolo della traccia numero 3 intitolata “Il pendolare (un pugno di mosche)” – che prende sempre più coscienza di ciò che gli sta intorno, della vastità e della possibilità mondana, e rifugge le vecchie percezioni individualistiche tuffandosi nell’intensità e nella bellezza dell’esistenza, sciolto dai nodi che lo obbligavano in posizioni troppo statiche. Un tuffo nelle essenze popolari, nei ritmi vitali delle strade, delle piazze, anche quelle più fredde. Il disco si chiude con una ballata folk, che strizza l’occhio alla tradizione di musica popolare di strada, e funziona nella sua posizione finale come segno positivo e lucente.
Al progetto collabora una squadra di professionisti, musicisti straordinari, ormai consacrati, almeno nel panorama locale, gravitanti attorno alla “Stabbiolo Records” di Sarteano; una sezione di fiati con Paolo Acquaviva al trombone e Mirco Rubegni alla tromba, Gianluca Meconcelli alla batteria, Diego Perugini alla chitarra solista, che appare anche come autore della musica insieme allo stesso Barlozzo in alcuni brani e moltissimi altri ospiti che appaiono lungo le singole tracce. Il comando delle masse sonore e del mixing è invece di Ignazio Morviducci. Per i live set che seguono la pubblicazione del disco, alla band si aggiungono Igor Abbas alle chitarre, Gabriele Ricci al corno e Luca Bernetti al basso.
Carlo Barlozzo – Rovaniemi – 04 La Terra Vista Dall’Alto
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