L’alienazione dal lavoro e l’alienazione dal non-lavoro. Si cade sempre più spesso nell’imbuto retorico dell’esistenzialismo, alla base delle frustrazioni umane: “una forma superiore di critica”, direbbe Leo Ferré, che inquadra la disperazione generazionale da emarginazione e da classismo individualista. Ci lamentiamo oggi dei lavori sottopagati, dell’eccessiva specializzazione delle qualifiche, degli stage non retribuiti, dei pagamenti con “visibilità”, per “farti un nome”, dei contratti a nero, degli stillicidi tramite voucher; tutto ci sembra nuovo, impossibile da comprendere per chi ha vissuto il mondo del lavoro prima di noi. Eppure dalle storie di lavoro – e di sudore – del passato, molto possiamo cogliere, molto possiamo imparare.
Mario Caruso, già chitarrista e compositore della band aretina SAMCRO, è autore di un egregio libro di narrativa intitolato “Il Grande Buio”, edito da Aletti editore, nella collana “Gli Emersi – Narrativa”. Un romanzo franco, chiaro, di una ricchezza espositiva rara. Un testo che ha molto da dire, che detiene un impianto di retaggi storico-sociali tenuti in considerazione costantemente, durante la scrittura.
Il protagonista, Moreno Alaimo, è un ragazzo che fugge da una situazione familiare difficile, confinata nella desolante provincia bolognese, per raggiungere Firenze, una Mecca storico-artistica, nella quale – sebbene detenga velleità di pittore – pur di guadagnarsi l’emancipazione di cui va in cerca, inizia a lavorare come operaio non qualificato in una grande fabbrica che produce impianti di areazione, la Respiraplex. Il contesto storico – che viene compreso solo nella parte finale del romanzo, se non per congetture temporali – non è scontato: è il 1999. La fine del secolo. Un mondo che, sebbene cronologicamente recente, appare così distante, nelle forme, nelle coscienze, nei costumi. Attenzione però: il 1999 non è il contesto del grande autunno caldo della direzione di Valletta in FIAT, non sono le gestioni del diritto del lavoro di Luciano Lama contro l’amministrazione Romiti, della lotta per la scala mobile sul potere d’acquisto degli operai, è anche lontano da quella marcia dei quarantamila torinese, che chiuse l’epoca dei grandi dissensi collettivi e delle aggregazioni, in virtù dell’automatismo, della marginalità delle posizioni, il trionfo dell’individualismo e della scala dei consumi. Il 1999 è un anno strano per la coscienza operaia, un anno pressoché nullo dal punto di vista storico, nel quale le forme esistenziali nel mondo del lavoro hanno ormai perso la forza comunicativa degli anni settanta, e il grigiore consumistico ha invaso i moduli vitali delle persone.
Proprio in questo contesto in cui tutti sono contro tutti, in cui gli operai complottano, scherniscono, scavalcano, secondo un sistema coercitivo di sopraffazione ed odio fratricida, Moreno si ritrova a consumare la sua giovinezza nell’opportunismo dei rapporti. Si innamora di Carla (un po’ “La Ragazza Carla” di Pagliarani, sebbene più cosciente di sé, nonostante le debolezze), un’avvenente impiegata della Respiraplex. Stringe rapporti con operai e impiegati, sottolineando la totale leviatanica diffidenza e il continuo scontro tra competizioni, in un turbinio di violenze concettuali all’interno del sistema-fabbrica. Moreno conosce Jonathan e Giorgio, due figli del riflusso che ambiscono al ‘posto’ fisso, nonché Artemio Giraudi detto Cowboy, ultimo baluardo monumentale di una stagione di lotta ormai fagocitata dall’edonismo egotico della società liberista. Ogni personaggio sembra farsi carico di una nomenclatura evocativa, di simboli e riferimenti. Non c’è movimento emotivo tra lettore e personaggi, l’onniscienza della terza persona sembra calarsi anch’essa in un’epoché relativista, per la quale l’unica salvezza sembra essere l’astensione, la neutralità, il lasciar scorrere il gioco dei dadi
Nonostante una discontinuità di registro, e di toni, la scrittura di Mario Caruso è una piacevole composizione a canone di artificio in prosa e tradizione. Un romanzo “d’altri tempi”, con una serie di quadri cinematografici ricollocabili nella grande stagione dell’autorialità impegnata di Petri, Bellocchio, della Wertmüller dei primi anni settanta, nonché Wilma Labate, il suo “Signorinaeffe” – che ben riporta il crudo distacco tra officina e quadri intermedi, ricalibrato, in un contesto storico diverso, nel rapporto tra Moreno e Carla, e tra Moreno e Jonathan.
La dinamica del linguaggio, spesso volutamente confusa, è congeniale allo straniamento delirante del protagonista, ebbro di storia dell’arte, di Machiavelli, di rinascimento e stilnovismo, un catafalco concettuale che si sbriciola nell’impatto con la crudezza della prosaicità quotidiana. L’idealismo di Moreno emerge con forza nel debordo sintattico e lessicale dell’innamoramento, della sbornia e del sogno: in questi tre momenti del racconto – dell’innamoramento di Carla, e la correlata sbronza, con annesso hangover in officina, nonché il sogno arcadico, quasi satiresco, che Moreno fa in preda all’estasi dell’amore – Mario Caruso tenta di disegnare, con la prosa, movimenti trans-artistici, che sono tratti pittorici, fraseggi musicali, curvature longilinee che forniscono alla scrittura una ritmica per nulla banale.
Accenni grotteschi che sembrano fare il verso al Nabokov politico di Bend Sinister (“I Bastardi” in italiano), il violino nel vuoto del potere, della soppressione e del grigiore e dell’appiattimento, i quali, dalla farsa amara, si tramutano in ipernaturalismo descrittivo, con tanto di arzigogoli citazionistici che sono Bianciardi e Pratolini. Insomma l’autore de “Il Grande Buio” dimostra di saper cogliere il giusto tratto dai grandi maestri della letteratura, come il suo personaggio, Moreno, che non esita a tirare in ballo Caravaggio, Antonello da Messina, Botticelli, per contrappesare le figure che dispone sulla sua velleità di pittore.
Il libro di Caruso è un libro che merita di essere letto per più motivi. Il principale sembra essere proprio la sua capacità di rispondere alla tensione dell’oggi, del noi-ora, attraverso una vicenda che riguarda il passato. Una capacità che si configura con un superamento del “buio” che ci riguarda, fuori dal quale tutti devono uscire, nell’ossequio del quotidiano, nell’elaborazione dei lutti e dei fallimenti, nella critica attiva di tutte le nostre debolezze intestine. Un “buio” che viene superato attraverso la descrizione sopraffina del dramma, un buio che – così descritto – rivela la sua forma genuina, un “buio” che se disegnato rivela il suo perimetro e, di conseguenza, i suoi limiti, il suo termine.
Il male, così ben descritto, così ben disegnato, diventa parte di una mappa esistenziale assoluta, che rivela un oceano al di là delle sue colonne d’ercole, ed altri continenti, ed altre vite, alla fine del buio.