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«Tutto il corpo a disposizione della parola» Intervista a Silvia Frasson

«Tutto il corpo a disposizione della parola» Intervista a Silvia Frasson

Sulla scena c’è lei, in pantaloni e canotta. Nero su nero. Nero anche il fondale, quasi il corpo dovesse mimetizzarsi con il circostante, quasi dovesse fondersi con tutto ciò che è intorno. Il corpo in sé non sembra neanche previsto, nemmanco contemplato. Come se, ai fini drammaturgici, per il pubblico dovessero servire solo volto, occhi, braccia e voce. Silvia Frasson ha portato in scena al Festival Orizzonti 2020 uno spettacolo bellissimo, nel quale, con la voce viva e la capacità espressiva di un’attrice estremamente consapevole dei dispositivi narrativi, si racconta un tema molto difficile. Si intitola La Vita Salva e affronta le vicende drammatiche di due famiglie, di un’infermiera e di un medico, che si ritrovano a confrontarsi con la morte, la sua idea, i suoi effetti sui vivi, e sul suo rovesciamento, la sua possibilità. 

La Vita Salva è uno spettacolo che Silvia Frasson ha cominciato a scrivere un anno e mezzo fa. Prima che le immagini delle terapie intensive, dei corpi intubati, degli ospedali presentati come luoghi catabatici off-limits, entrassero violentemente nelle percezioni e negli immaginari di tutti. 

La Vita Salva è uno spettacolo di teatro di narrazione, nella sua forma più tradizionale, integra e asciutta. È prodotto da Tedavi’98 (casa di produzione fondata da Alessandro Riccio, un altro che  quando si tratta di raccontare storie, da soli su un palcoscenico, sa il fatto suo) in collaborazione con il Festival Montagne Racconta di Tre Ville, in provincia di Trento, nel quale, ogni anno sotto la direzione di Francesco Niccolini, nel corso di una residenza artistica, viene portato avanti un interessantissimo percorso di ricerca negli ambiti della narrazione e del teatro di parola. 

Lo spettacolo è altresì patrocinato dall’Associazione Italiana per la Donazione di Organi Toscana, ma i contenuti esposti da Frasson sono sviscerati attraverso narrazioni molteplici, nelle quali la “donazione degli organi” è il fulcro tematico intorno al quale si affronta la difficoltà dei rapporti umani, la gestione del lutto, le interazioni con l’Altro, si parla d’amore e di ricerca a tutto tondo del senso dell’esistere. Uno spettacolo che incarna perfettamente il tema della manifestazione chiusina entro cui è stato presentato: “Ricostruire”. In La Vita Salva si parla di ricostruzione di un corpo, di una coscienza, di una vita “dopo”. 

Abbiamo rivolto qualche domanda a Silvia Frasson dopo lo spettacolo allestito presso la Tensostruttura di San Francesco a Chiusi in occasione del Festival Orizzonti 2020 #Ricostruire. La Vita Salva va in replica domenica 9 Agosto alle 18:30, nella stessa location.

Gran parte de La Vita Salva si svolge dentro un ospedale. Durante il processo creativo, come hai proceduto per quanto riguarda la veridicità della prassi ospedaliera, nell’ambito della donazione degli organi? La ricostruzione del clima delle sale d’attesa e dei corridoi ospedalieri sembra estremamente vivida. Sei partita da un’esperienza personale o hai ricostruito tutto attraverso l’indagine? 

Silvia Frasson: La minima esperienza che ho, rispetto alle terapie intensive e agli ospedali, non era di certo sufficiente per strutturare una storia che fosse credibile. Credo però che quando una narratrice o un narratore si autodisciplina nella ricerca della verità, anche quando tratta di temi che non gli appartengono nel privato, le cose arrivano genuinamente, arrivano esattamente per  quello che sono. Sono uscite un po’ di recensioni sullo spettacolo, ho sentito molti commenti, e sembra che una delle scene più efficaci, per chi ha avuto modo di vedere lo spettacolo, sia il racconto del dolore della madre per la perdita del figlio. Ecco: io non sono madre, non posso avere alcuna reviviscenza di sensazioni ed emozioni vissute. Nel momento in cui ho approfondito fortemente la motivazione di quel personaggio, di quelle scene, in maniera sincera, ecco che la verità, la credibilità, la verosimiglianza – che ricerco costantemente nel mio lavoro – sono emerse.  Per quanto riguarda gli ambienti e le prassi ospedaliere, all’inizio della stesura del testo mi sono confrontata con un primario cardiologo di Siena: lui mi ha tranquillizzata dicendomi «guarda, se questo spettacolo non ha come fine l’informazione e la divulgazione medico-scientifica, tu puoi dire quello che vuoi, senza preoccuparti delle specifiche sanitarie: quello che conta è la motivazione, di ciò che stai scrivendo, quindi sentiti libera». Ho continuato a scrivere nella totale libertà, ma alla fine il risultato è stato perfettamente credibile e verosimile. Semmai, è l’urgenza di scrivere e rappresentare questo spettacolo, ad essere partita da una ragione privata, personale: di recente, mi sono confrontata con la morte, di persone vicine, più o meno care. Quello che ho capito è che la morte è sempre improvvisa, perché nessuno è mai pronto. L’unico modo per reagire è poter dire che la vita vince, e non si parla di una vita qualsiasi, si parla di una vita più grande, di una vita totale. 

Si parla di “terapie intensive” dopo mesi nei quali questo sintagma ha rappresentato un’immagine molto forte nella percezione comune. Il tempo storico che abbiamo vissuto, è in qualche modo entrato nella scrittura e nella costruzione dello spettacolo? 

In realtà lo spettacolo avrebbe dovuto debuttare ad Aprile. È stato scritto molto prima. Durante il lockdown l’ho addirittura messo via e quasi dimenticato. Ero molto negativa: pensavo che non ci sarebbe più stata opportunità di farlo, questo spettacolo, che non ci sarebbero più state occasioni. Avevo però un’altra data, già fissata, al Festival del Dramma Popolare di San Miniato, il 17 luglio. Quel festival è stata quindi la vera occasione di debutto, di fatto un anno dopo la scrittura del testo. È stato scritto in tempi non sospetti, quando ancora dire “terapia intensiva” non aveva lo stesso effetto che ha oggi, nei volti degli spettatori, quando ancora parlare di “persona intubata” non aveva un’immagine così forte condivisa nell’immaginario di tutti. Quello che è successo ha fatto sì che questi temi – che prima riguardavano solo una parte della popolazione, e cioè quella che sfortunatamente aveva avuto a che fare direttamente con l’ambiente ospedaliero – siano diventati un’esperienza comune di tutti. Ma gli ultimi mesi, ci tengo a dirlo, hanno avuto anche effetti positivi, proprio in virtù di questa condivisione dell’esperienza: parlando con i responsabili A.I.D.O. ho avuto modo di scoprire che durante la pandemia nonostante ci siano stati meno trapianti, per via delle limitazioni con cui si sono dovuti confrontare i nostri ospedali, sono cresciuti i consensi alla donazione. Quando ci chiediamo se siamo cambiati o meno, se siamo migliorati o peggiorati, questo è un segnale che parla chiaro: sì, abbiamo acquisito una consapevolezza comune maggiore. Sono molto positiva in questo senso. 

Foto di Antonio Viscido

Sulla scena sei vestita completamente di nero su fondale nero. Il tuo corpo sembra voglia mimetizzarsi, così come il corpo, di cui si racconta nello spettacolo, sembra scomparire. Nel modo con cui hai impostato la scena, in questo affidare tutto al volto, ai gesti, alle mimiche, è in qualche modo un richiamo ai contenuti del testo? 

Questo spettacolo è per me principalmente fatto dal corpo. Si parla di corpo e con il corpo si ha a che fare. Non è vero che il corpo scompare: c’è un corpo che non ha più significato, c’è un altro corpo che prende vita, c’è una forte fisicità che sprigiona vitalità, c’è una battuta che dice «in quel momento quel corpo vivo è tutto»… Per quanto riguarda la scelta dell’abito, io vesto quasi sempre di nero, o comunque scuro. Quando faccio narrazione metto sempre i pantaloni neri. Avevo la necessità che alcune precise parti del corpo si vedessero: certamente il volto, ma anche le braccia. Il teatro di narrazione che è tradizionalmente percepito come teatro di parola, di testo, è per me estremamente corporale. Ogni parola non viene detta solo con la bocca, ma anche con le braccia, con la pancia, con tutto l’organismo. Tutto il corpo viene messo a disposizione della parola. Sì, c’è tanto testo nel teatro di narrazione, ma per me è un teatro estremamente fisico, nel senso totale del termine. 

Parlando di teatro di narrazione: in questi mesi – e auspicabilmente anche nei mesi a venire – il monologo e il teatro di narrazione saranno, per ragioni anche sanitarie, il genere precipuo delle stagioni teatrali: credi che questo comporterà un cambiamento nel modo di fare questo tipo di spettacoli? 

Non cambierà il modo di fare teatro. Può arrivare un momento di gioia e un riconoscimento di valore. Si sente molto spesso la frase Oddio no! Un monologo è pesante! Non lo reggo! Ecco, probabilmente andiamo verso tempi migliori, per il teatro di narrazione. La mia modalità è sempre  stata quella di evitare il mono-tono drammatico: ho sempre voluto attraversare tutte le sensazioni, risata compresa. Anche se si parla di qualcosa di importante, di serio, di drammatico, tendo ad alleggerirlo, e questo è anche il caso de La Vita Salva: si parla di donazione di organi, ma ho inserito momenti dove il pubblico ride. Io penso che il monologo di narrazione sia stato un genere ingiustamente snobbato dalle programmazioni teatrali e dal pubblico. Immagina di aver presentato, negli scorsi anni, a un impresario, o a un potenziale spettatore, il tuo spettacolo e alla domanda «di cosa parla questo spettacolo?» avessi risposto «è un monologo che parla di donazione degli organi», lo avresti fatto scappare! Invece adesso le cose stanno cambiando. Adesso è importante ascoltare queste storie. È importante ascoltare queste storie rappresentate in questo modo. In un momento in cui le certezze crollano e la gente si è confrontata con la fragilità dell’esistenza, è ancora più importante fronteggiare questo tipo di tematiche. Non cambia il modo di fare narrazione, cambiano le possibilità di farle: la possibilità, in un mestiere come il nostro, è tutto. 

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