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Il “traffico gonfiato” su Internet non è una novità

Il “traffico gonfiato” su Internet non è una novità

We buy things we don’t need, with money we don’t have, to impress people we don’t like”.

“Compriamo cose di cui non abbiamo bisogno, con soldi che non abbiamo, per impressionare persone che non ci piacciono”.

In questi giorni, sono stati pubblicati alcuni articoli riguardanti il traffico gonfiato che il Corriere avrebbe commissionato a Tradedoubler: la pratica utilizzata sarebbe quella del site under. In Internet, non è di certo una novità che si studino e si provino nuovi meccanismi per aumentare il traffico esistente, o ottenere più visite uniche e nuovi utenti fissi. Ma, come ogni cosa, certe pratiche devono avere un limite, pena la messa in discussione della credibilità e della serietà di certi brand.

Partiamo con un piccolo chiarimento: non è di per sé scandaloso o illegale comprare le keywords su Google, o pianificare una campagna pubblicitaria per apparire il più in alto possibile sui motori di ricerca. Si fa, ci sono molte agenzie che si occupano di ottimizzare il posizionamento del sito nei motori di ricerca, come per esempio il SEO o l’OAO. La pratica di site under invece può essere considerata scandalosa (e ingannevole), perché va a creare una visita e un visitatore unico, ma spesso il traffico non è umano, è generato da dei bot.

Nella smania di superare la concorrenza di Repubblica.it, si è disposti a fare qualsiasi cosa pur di primeggiare – ed è poco verosimile che il Gruppo RCS non sapesse niente di questa pratica, certo, magari non ai vertici, ma magari chi si occupa di queste prassi, lo deve sapere. Soprattutto per una questione di credibilità del brand, che rischia di essere messa discussione: non dimentichiamoci che i media e gli editori online sono supervisionati dall’Audiweb, che controlla i numeri del traffico internet di Corriere, Repubblica e via discorrendo. Poi ovviamente, è arrivata anche la smentita/precisazione, neanche troppo chiara, tipicamente all’italiana, anche da parte di Tradedoubler: ovvero, la colpa non è di RCS, ma neanche di Tradedoubler. La colpa non è mai di nessuno: il traffico e i click saranno aumentati magicamente da soli e sarà stato un trafficone a far partire quella campagna di site under per conto del Corriere.

Si può discutere che non ci sia niente di male nell’ottimizzare il sito per un motore di ricerca: quello che stupisce sempre è come non si possa pensare prima di tutto a ottimizzare per esempio la grafica di un sito. Avete visto quello del Corriere.it? Francamente è assai poco leggibile e se si vuole leggere una notizia, è preferibile andare su altri lidi più gradevoli. È fuori discussione cercare di leggere sul telefono delle notizie dal sito del Corriere: occorre abbonarsi. Per quanto riguarda i contenuti? Premesso che reputo che siano sempre migliorabili, a prescindere dal sito. (E non è proprio remota la notizia che sul Corriere sia apparsa un’intervista a una scrittrice… Moglie del giornalista autore dell’articolo. Ripeto, la reputazione di un giornale è fondamentale, vorrei sapere chi ha autorizzato un articolo del genere – perché è improbabile che non si sappia che questa scrittrice sia sposata a un giornalista del Corriere – NdR). Prima di arrivare a queste pratiche di marketing, prima di tutto bisognerebbe avere un reparto dedito al marketing e alla gestione dei social network competente e sul pezzo, perché queste pratiche bisogna conoscerle e bisogna saperle usare saggiamente.

Ma questo uso di “gonfiare” le proprie visite si può traslare su Facebook. Da circa un anno, forse poco più, c’è questa prassi del “comprare fan” o “comprare like”.  Si può scegliere per quanti giorni far durare questa campagna, su quali paesi concentrarla, il budget e così via. E magicamente, viene promessa più visibilità nelle bacheche altrui e un numero congruo di like in più assicurati al giorno o alla settimana.

Il problema è che questa campagna può avere effetti disastrosi, se usata senza cognizione di causa e senza settare i parametri giusti.  Si rischia di avere molti like che provengono da utenti fuori target nella maniera più assoluta, ma che non interagiscono minimamente con i contenuti della pagina. Ma è chiaro: c’è chi crea profili fasulli e mette il “like” dietro compenso forfettario (una manciata di dollari per migliaia di like al giorno, come potete ben leggere in quest’articolo). Peccato che anche le statistiche di pubblica consultazione delle pagine di Facebook poi confermino la politica poco trasparente di certi furbetti che vogliono superare gli altri in quantità, senza aver considerato che forse il problema fosse la qualità del loro prodotto. Come può una pagina italiana con presunti “migliaia di like” avere il grosso del traffico proveniente dall’altra parte del mondo (per esempio, il Cile o il Perù), con una fascia d’età media degli utenti di 13 – 17 anni e gli utenti hanno nomi incomprensibili, o sono anche presunti arabi nati in Alaska, ma che vivono in Sudamerica? Poi si dà un occhio alla pagina e l’attività è praticamente inesistente, quando non ci sono soldi per finanziare nuove campagne che promuovano la pagina e i post. Come se fosse una pagina seguita solo da qualche decina di persone. In buona sostanza, diventa una pagina da buttare: è diventata dipendente dalle campagne promozionali – e appena si smette di investirci in denaro, viene abbandonata a se stessa. Queste prassi sono comuni anche su Twitter, e anche su YouTube – come fanno alcuni video ad avere già centinaia di migliaia di visualizzazioni dopo qualche giorno? Semplice, c’è un business dietro che pilota il tutto e gonfia il tutto.

Ma fino a che punto si arriverà nel rendere una pagina “cliccatissima”? Internet molto spesso viene visto come un paradiso di libertà e di massima libertà nelle pratiche: forse è difficile stabilire un’etica valida per tutti, forse non è abbastanza affidarsi al semplice buonsenso, perché ci sarà sempre qualcuno che non baderà a scrupoli e pur di avere qualche click in più sarà disposto a tutto. Il problema è che, molto spesso, se queste prassi diventano fisse, il risultato è poi un sito intasato buono da lanciare nel cestino. Il punto è questo: chiedersi se vale la pena percorrere la strada più veloce, che porta a risultati non autentici, o provare una politica di social marketing più “faticosa” per chi la deve fare e deve imparare i meccanismi giusti che possono portare il sito a un buon livello di credibilità anche nei social network e un’autentica indicizzazione nei motori di ricerca.

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