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Tre domande a Fausto Paravidino

Tre domande a Fausto Paravidino

Ho incontrato Fausto Paravidino prima che salisse sul palco del teatro Mascagni di Chiusi, per portare il notevolissimo spettacolo “I Vicini” prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano. Devo ammettere un po’ di emozione nel trovarmi al cospetto di un autore che – seppur non godendo della fama che si meriterebbe – è per me un punto di riferimento nel panorama teatrale – e lo sarebbe anche di quello cinematografico se avesse continuato a sfornare capolavori, come aveva lasciato prospettare la sua opera prima, e per ora unica, “Texas“ – sia italiano che internazionale.

Tommaso Ghezzi: Quindici anni fa hai scritto “La malattia della famiglia M“, oscuro ritratto checoviano dei demoni intimi di una famiglia di provincia. Poi c’è stato un percorso che ti ha spostato violentemente verso l’impegno pubblico; penso a Genova01, o all’inevaso “Il Caso B”, c’è stata poi l’importante esperienza del Teatro Valle. Hai oscillato quindi tra contesti privati, intimi, interni, ad altri pubblici, impegnati, esterni. Come si è codificato nella tua esperienza questo binario? In che condizioni è ridotto oggi il drammaturgo politico? 

Fausto Paravidino:  Eh, è molto difficile la risposta da dare a questa domanda. Posso dire che uno degli eventi fondamentali, lungo il mio posizionarmi all’interno di una parabola di rapporti tra arte e politica, è un fatto in realtà molto marginale del mio curriculum.

Dopo Genova01, dopo Noccioline -al termine del quinquennio Berlusconi –  io e i miei colleghi, con le nostre poche armi, abbiamo cercato di combattere il berlusconismo. Si andò a nuove elezioni nel 2006 e facemmo uno spettacolo intitolato Orazione Elettorale a 5 Punte, che era una farsa brevissima, molto divertente, sulle elezioni. Per noi era il momento in cui ci saremmo liberati da Berlusconi, per andare verso un centro sinistra che non era esattamente il massimo dell’eccitazione per noi. Mentre facevamo grasse risate con il pubblico, essenzialmente dei centri sociali, andò a finire con la sconfitta del centro destra per un soffio di voti, un nemico fisico che era un numero che stava al di sotto del margine di errore matematico; furono elezioni vinte per qualcosa che stava sotto il normale errore di calcolo. Questo mi fece sentire un vero cretino.  Un cretino perché mi ero occupato di una cosa pubblica, perché credevo di avere ragione nel mio essere engagé, quando in realtà avevo torto. Mi ero permesso di ridere della volgarità della campagna elettorale, come se si potesse ridere di un imbruttimento del genere. Capii che non avevamo – e non avevo – per niente interpretato il mondo. Credevamo di essere giusti quando il mondo andava da tutta un’altra parte.

Penso sempre a Steven Daldry quando, interpellato sul peso che il Royal Court Theatre avesse nei confronti della politica rispose che il teatro politico inglese avesse storicamente un peso nell’opinione comune e che il Royal Court si era impegnato per far smettere gli inglesi di votare la Tatcher, quando la Tatcher perse (attribuendosi grosso modo il merito di aver portato al trono Tony Blair e all’epoca non immaginava di come sarebbe poi finito il blairismo, altrimenti non si sarebbe bullato così tanto).

Nel 2006 io invece ho pensato che tutti gli sforzi fatti dal teatro, dal cinema, dagli artisti engagé, fossero completamente vani.  C’era qualcosa di molto più intimo, profondo, molto più sbagliato nella nostra società. Qualcosa che era molto più radicato di ciò che può essere colto dalla satira, dal prendere qualcuno per l’in giro sui suoi comportamenti iniqui. Ho capito di dover fare un lavoro molto più sottile rispetto al rendermi antipatico attraverso una dichiarazione di voto,  mostrando i cattivi comportamenti di questo o di quell’altro politico. Il ruolo sociale dell’arte deve andare a lavorare su principi ancestrali, molto più urgenti, per ricostituire la società. Deve riedificare l’umanità basandosi su valori basici come la solidarietà, il bisogno degli esseri umani di condividere le cose con altri esseri umani invece che prendersi a mazzate.

Ho quindi spostato il mio lavoro. Al Teatro Valle, ad esempio, c’è stata un’esperienza di lotta in cui abbiamo proposto un modello di socialità e di governo basato sulla solidarietà invece che sulla competizione, ma non ci siamo occupati di politica. Siamo stati attentissimi a non collegare il gesto teatrale con la lotta politica. Abbiamo invece cercato di ergere la lotta come il contesto attraverso il quale sperimentare la libertà dell’arte.

TG: E’ stato detto che dopo le avanguardie teatrali, con gli elementi farseschi sorbiti dal teatro dell’assurdo, da Pirandello, a Beckett, da Osborne a Pinter, la ‘problem play’, quella coniata per Misura per Misura, in cui non esiste una categorizzazione canonica del genere, sia rimasto l’unico insieme referenziale del teatro contemporaneo. Secondo te, del vecchio schema dei generi, cosa resta?

FP: Guarda, resta quasi tutto in realtà. Del teatro non si butta niente! I generi seguono meccanismi di selezione naturale attraverso le mode dei tempi che si susseguono. Le mode subiscono processi di corsi e di ricorsi. Qualcosa si tiene e qualcosa si butta; voglio dire,il John Webster  era un po’ meno bravo di William Shakespeare, ma nessuno critica il fatto di studiare e mettere in scena più il secondo del primo. Però ho la sensazione che la maggior parte degli elementi classici siano stati tenuti. Si possono riscrivere, cambiare i copioni, ma gli esseri umani non cambiano poi così tanto. Per questo non credo che il teatro moderno sia poi così diverso dal teatro antico. Sono cambiate un po’ le forme, un pochino, ma non tanto. A cambiare tantissimo le forme sono i più contingenti di tutti, quelli che passeranno di moda prima degli altri. Gente che semplicemente vuole farsi notare. Non ricordo se fosse Flaiano o Petrolini a dire “Niente rimane più uguale a sé stesso, nella storia, come l’avanguardia”…

Leggi la recensione dello spettacolo di Fausto Paravidino "I Vicini"

TG: Sei apparentemente l’esempio più riuscito di autore-teatrante, drammaturgo attivo, nel senso più alto del termine; secondo te questa forza demiurgica/creativa di colui che scrive, recita e dirige, ha il riscontro di attenzione e gloria che si merita o – come appare ai miei occhi, ma come credo appaia nella maggior parte dei casi – c’è una marcata settorializzazione tecnica negli ambienti teatrali?  

FP: Sì, c’è una grossa settorializzazione. Andiamo verso una società tecnocratica. Non c’è un informatico al mondo che sappia come funzioni il sistema Windows nel suo complesso. Ognuno ne conosce solo una piccola parte. Nessuno al mondo costruisce un’automobile, ma ne costruisce solo un bullone. Questa cosa sta entrando anche nel teatro, ma ciò è pericolosissimo. Dicono che la specializzazione uccise i dinosauri. Io lavoro affinché non si perda quella figura antica di cui facevano parte Shakespeare, Molière, de Filippo; autori, cioè, che si prendevano la responsabilità delle loro opere. Per me scrivere dirigere e recitare non sono tre lavori diversi, ma sono tre modi diversi di fare lo stesso lavoro. Non dico che questo sia l’unico modo possibile di intendere il mestiere teatrale, ma non credo che si debba fare il tifo per la specializzazione. I ministri tecnici sono di solito una fregatura. I ministri devono essere politici. Il politico è una figura che attualmente è passata terribilmente di moda perché tutti mascalzoni, ladri, eccetera, un tempo era sinonimo di “onorevole”, gli elementi migliori della società, persone che non erano esperti di una cosa sola ma sapevano un po’ di tutto. Questo poi ha prodotto dei grandi ignorantoni… ma vabbè è andata così; meglio non affezionarci ai vizi piuttosto che alle virtù. Siamo abituati a misurare la società attraverso i suoi vizi e questo ci rende un po’ stupidotti; se imparassimo a misurarla anche attraverso le sue virtù, scopriremmo delle cose che potremmo permetterci di non buttare via.

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