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Avere vent’anni: gli “Essenza”, una band dal rock velenoso

Avere vent’anni: gli “Essenza”, una band dal rock velenoso

Negli anni ’90 l’allora leader dei CSI Giovanni Lindo Ferretti (ex Cccp) tentò l’utopia di creare un’etichetta discografica alternativa (“I dischi del mulo”) che partisse da un principio: produrre band alternative senza musicisti di professione, o viziati studenti fuori corso, ma fatte da persone normali, lavoratori, che dedicavano tempo libero alla musica. Così nacquero gli “Ustmamò” e i “Discilpinatha”. Ecco, se questo esperimento di “musica proletaria” fosse ancora in piedi, consiglierei a Lindo Ferretti una ruspante rockband nostrana, dove a cantare è un elettricista di vent’anni e a suonare la batteria un giovane fornaio: gli “Essenza”.

Gli Essenza sono una rockband di Sarteano di poco più di vent’anni ed hanno qualità che fanno la differenza: faccia tosta, energia e soprattutto uno stile. Netto, chiaro, magari acerbo e spesso sopra le righe, ma tutto loro.

essenza CD okIl loro primo disco da studio autoprodotto “Il mio veleno” (registrato, missato ottimamente da Alessandro Cristofori) mi è rimasto incastrato nel lettore cd, ed ho deciso che meritano una recensione. Alcuni miei amici trentenni sono scettici, ormai ascoltano i “Talking heads” o gli “Arcade fire” e forse dimenticano quando eravamo divertiti, innamorati, incasinati e incazzati senza soluzione di continuità anche noi. A vent’anni, appunto.

Chi per caso si è trovato davanti a loro in un live non è rimasto indifferente. Gli Essenza sono goliardici nei modi, nell’atteggiamento e nei testi. Francesco Garosi, il cantante, cala rime a metà tra cantato e hip hop su basi funk e hard rock (negli anni ’90 lo avremmo chiamato “crossover”). Poggia su una verve e su un’ironia incontenibile, che crescendo dovrà imparare a dosare meglio, ma tiene il palco e fa viaggiare la band alla velocità della luce. Nei momenti migliori, sembrano usciti fuori da una puntata di South Park.

“Protesto”, “Diverso” o “Il mio veleno” raccontano l’urgenza di stanare l’ipocrisia raccontata dai media. Sono lontani anni luce da una generazione omologata da “Amici” o dal “Grande fratello”; o anche dai talent stile “the Voice”. Non cercano citazioni colte (una sola concessione cinematografica con “Qualcuno volò sul nido del Cuculo”), ma non toccano mai niente per farlo rimanere fermo. Sono diretti, la rima si chiude sempre su una provocazione (almeno) accettabile. Schiaffeggiano il buon gusto bipartisan di questi tempi, irridono la tv noiosa e finto perbenista, vedono la politica da talk show come una roba lontanissima, ma non sono per niente apolitici. A volte, va detto, rischiano di esagerare nelle parolacce (servirebbe un “explicit lyric” in copertina come per i rapper di una volta), ma sono veri come un gavettone di acqua gelida. E si salvano sempre, trovando la strada dell’ironia e nel non prendersi mai troppo sul serio.

“Cenere”, forse il pezzo migliore assieme alla title track, fa emergere un inaspettato lato introverso nell’unica ballad del disco. Un lato che affiora anche in “903” (nota marca di grappa barriccata), la storia semplice di una delusione d’amore raccontata, o meglio, difesa dalle prese in giro degli amici al bar di paese. Dove niente si può nascondere, ma tutto si racconta e si giudica, come in un’immensa seduta psicoanalitica collettiva. Ordinaria vita di provincia.

Si fa fatica a non premere play una seconda volta. E si perdonano alcune soluzioni facili e qualche passaggio forse troppo demenziale, grazie ad un’energia vitale e alla qualità dell’esecuzione musicale. Valerio Marabissi, giovane fornaio, alla batteria è un metronomo funk, certe linee di basso di Alessio Zeppoloni ( che sostiene il cantante con cori e doppie voci) non possono che ricordare la fluidità di Flea, e le chitarre di Andrea Puliti (si intuiscono ore di studio e buono ascolti) non sono mai invadenti.

essenza live2Gli Essenza meritano di essere visti dal vivo e ascoltati su cd, ma soprattutto di crescere in pace. Qualcuno gli rimprovera un eccessiva goliardia nei testi e nei live (non è difficile vederli iniziare un concerto in mutande), ma mi chiedo: con le dovute proporzioni (Sarteano non è Los Angeles), forse i Red Hot Chili Peppers prima di rileccare suoni e immagine erano tanto diversi? Vi ricordate, per caso, dove stavano i calzini?

Last but not least, lode alla scelta di non cedere alle cover, ma di presentare uno spettacolo loro dall’inizio alla fine. Con un loro immaginario, fatto di serate annoiate al bar, ribellioni acerbe, un mondo dove i buoni e i cattivi si capiscono subito, racconti di amici strambi (“Un tipo messo male” mi ricorda vagamente “Perché Pippo è uno sballato”, il fumetto di Andrea Pazienza); ma soprattutto quell’odore di intere nottate in sala prove, dove si suda e si limano rime, riff e melodie, per sopravvivere ad un piccolo paese di provincia. Chi non è stato così a vent’anni?

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